numero 13 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk – febbraio 2021
Nel clima di guerra e di aiuti alla Patria, era partita la campagna fascista della “raccolta del ferro”: servivano armi ai nostri soldati. La Scuola si era prontamente adeguata.
Forse solo i vecchi come me ricordano “La sagra di Giarabub” (la sconfitta del marzo ’41); strofe che nelle adunate del sabato cantavamo a voce piena. Basta qualche assaggio per capirne il senso: “Colonnello, non voglio il pane, / dammi il piombo pel mio moschetto!”. Poi il tono si faceva ancora più stentoreo: “Colonnello, non voglio l’acqua, / dammi il fuoco distruggitore!…”. Non vi risparmio nemmeno il finale, tragico e, insieme, ridicolo: “Colonnello, non voglio encomi, / sono morto per la mia terra; / ma la fine dell’Inghilterra / incomincia da Giarabub!”. E, invece, sappiamo quanti dolori e lutti e tragedie (a cominciare dalla battaglia di El Alamein del 1° luglio 1942) ci costò la guerra fascista, al di là della retorica, di cui gli eventi erano intrisi.
In questo clima di guerra – dicevo – avevo messo gli occhi addosso a una palla, che io credevo d’argento: mi pareva davvero splendente, ma era soltanto di latta. Dopo qualche giorno – ero io che chiudevo l’aula alla fine delle lezioni – fui svelto a prendermela e metterla con mossa fulminea nella borsa; la portai a casa. Ma entrai in uno stato di ansiosa, colpevole tensione: “Ma come? I soldati rinunciavano al pane e all’acqua; e io?”. Finché non mi decisi a riportarla indietro, per rimetterla di corsa al suo posto.
L’ho detto che eravamo nove in famiglia, sette figli. Beh, non era facile parlare e farsi ascoltare. Quindi, al rientro da scuola pensavo spesso a cosa raccontare, arricchendo la cosa con particolari di fantasia tali, che attirassero l’attenzione degli altri. Una volta raccontai che un carretto, pieno di barili di vino (Frascati ne era ricca), era tirato da un cavallo, che rompendo le righe era precipitato giù per la via Malpensa, disarcionava i barili, il cui contenuto si spargeva per terra, insozzando le scarpe e le gambe dei passanti… È così che qualche volta mi riusciva di stare per un po’al centro del pranzo.
Al pranzo la domenica eravamo al completo, tutti e nove; mio padre amministrava le porzioni, che erano sempre porzioni di guerra; e, sempre, mi pareva che la porzione più piccola toccasse a me. Come capitava con le pesche, che però, a dire la verità, erano grandi e grosse; e ancora oggi così le ricordo; ai grandi ne toccava una metà ciascuno, ma a me, Enrico e Angelo, solo un terzo, magari della più grande; e non c’era verso che a me capitasse la porzione più grossa; così mi pareva e qualche volta mio padre (perfidamente) diceva: “te la cambio con quella di Angelo?”. Allora, mi ritiravo in buon ordine, non ero più sicuro della mia percezione.
A proposito di cibo, mi è rimasto impresso nella mente il ricordo di una particolare gara, veramente bizzarra, che vedeva impegnati Angelo e me. Dovevamo avere a disposizione due patate lesse, che erano state preparate per la cena: ci appartavamo nel corridoio, con ciascuno una patata, che avvolgevamo nella carta di una pagina di quaderno; vinceva chi, insieme alla patata, riusciva a ingoiare più carta. Gioco davvero bizzarro in quei tempi di fame. C’era in quel gioco, secondo me, un po’ di avventurismo alimentare, di estrosa fantasia. Ma in tempi moderni le nuove generazioni non mangiano la cioccolata “al peperoncino”?
Gualtiero