Bacheca, Parole al vento

Parole al vento n. 12

Redazione

lbaldini

Roma, 12 marzo 2021


Farfalle

Il numero del 12 marzo 2021

Tema


Un filo appeso alla parete erbosa che sprofonda nell’abisso. Il sentierino sul Gran Sasso è di quelli considerati semplici, ma quel vuoto sul fianco destro è un nemico terribile che riempie di angoscia il cervello e paralizza le gambe. Proprio lì in mezzo, in direzione contraria, si materializza un omino vestito di tutto punto da safarista, con una reticella in mano. Va a caccia di farfalle. Mentre lui sgambetta dietro ai lepidotteri, l’escursionista incauto procede con movenze da automa alla ricerca di un brandello di terra piatto e largo.


Foto di Pino F.: “questa l’ho vista in Costarica, ha le ali trasparenti, è leggerissima”

colonna sonora


Mina e Ivano Fossati – Farfalle – vai alla canzone
proposta da Rossella G.


Svolgimento


pensieri


Anche oggi fatico a ricordare, ma mi è sembrato un grande dovere accettare questo invito per ricordare il male altrui. Ma anche per ricordare che si può, una gamba davanti all’altra, essere come quella bambina di Terezin che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. Io non avevo le matite colorate e forse non avevo la fantasia meravigliosa della bambina di Terezin. Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati. Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali. Che siano in grado di fare la scelta. E con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati.

Liliana Segre, dal discorso tenuto al Parlamento europeo il 29 gennaio 2020


Farfàla
Cuntént própri cuntént
a sò stè una masa ad vólti tla vóita
mó piò di tótt quant ch’i m’a liberè
in Germania
ch’a m sò mèss a guardè una farfàla
sénza la vòia ad magnèla.”

La farfalla
“Contento, proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando
mi hanno liberato in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.”


Poesia di Tonino Guerra tratta da sito http://museotoninoguerra.com/it/home/


Mexico: il lungo viaggio della farfalla Monarca lungo il continente americano
proposta da Adriana H.


Farfalle libere
O donne povere e sole,
violentate da chi
non vi conosce.
Donne che avete mani
sull’infanzia,
esultanti segreti
d’amore tenete contoche la vostra voracità
naturale non
sarà mai saziata.
Mangerete polvere,
cercherete d’impazzire
e non ci riuscirete,
avrete sempre il filo
della ragione che vi
taglierà in due.
Ma da queste profonde
ferite usciranno
farfalle libere.


Alda Merini


Proposta da Luca A.

Bruco, crisalide, farfalla: che meraviglia può essere la vita!
Laura B.


Caterina B.: Basta una parete di farfalle? Appartamento a Pisa nel 2018, quando si poteva viaggiare.


Mi sento una farfalla/Che sui fiori non vola più
da “Ma che freddo fa”, compositori: Francesco Migliacci / Claudio Mattone, interprete: Nada
proposta da Gualtiero T.


Il murales di San Francisco cattura le sensazioni della poetessa Amanda Gorman – proposto da Tonino B.

“Dalla finestra è entrata una falena,
e con le sue ali piccole e pelose
atterra e decolla di gran lena,
fruscia sul nostro capo senza posa.
Forse l’insetto meglio di noi è dotato
di vista acuta e vede più in là?
Io non ho intuito, né tu hai indovinato
che i cuori splendono nell’oscurità.”
W. Szymborska

proposta da Rossella G.


tante parole, il testo lungo


Il romanzo di Julia Alvarez racconta la storia delle sorelle dominicane dette “Las Mariposas”. Nella settimana dell’8 marzo, se volete, dedicate una ventina di minuti di lettura alle sorelle Mirabal uccise da emissari del despota Trujillo il 25 novembre 1960. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha individuato il 25 novembre come la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.


Il tempo delle farfalle
I – Dedé – 1994 e 1943 circa
Strappa i rametti secchi dalla strelitzia, scostandosi dalla pianta ogni volta che avverte il rumore di un’auto. Quella donna non troverà mai la vecchia casa, dietro la siepe di ibiscus che torreggia alla svolta della strada sterrata. Non una gringa dominicana almeno, in giro con una carta stradale su un’auto a nolo e in cerca di vie col nome! Dedé ha ricevuto la telefonata al piccolo museo, questa mattina. Poteva la donna, per favore, venire da Dedé a parlare delle sorelle Mirabal? È originaria di qui, ma è vissuta per molti anni negli Stati Uniti, della qual cosa si scusa, dato che il suo spagnolo non è granché. Là non conoscono le sorelle Mirabal, e anche di questo si scusa, perché è un delitto che debbano essere dimenticate, queste non celebrate eroine della clandestinità eccetera. Oddio, un’altra. Ormai, dopo trentaquattro anni, le commemorazioni, le interviste e le celebrazioni di onoranze postume sono quasi cessate, tanto che per interi mesi Dedé può riprendere la sua vita normale. Da tempo però si è arresa alla scadenza di novembre. Tutti gli anni, quando si avvicina il 25, arrivano le troupe televisive. C’è l’intervista d’obbligo. Poi la grande commemorazione al museo, le delegazioni che arrivano fin dal Perù o dal Paraguay, davvero una prova tremenda, preparare tutti quei panini, coi nipoti e le nipoti che non sempre arrivano in tempo per dare una mano. Ma adesso è marzo, Maria Santisima! Non le spettano altri sette mesi di anonimato? «Potremmo fare per oggi pomeriggio? Ho un altro impegno più tardi» mente Dedé alla voce. Deve farlo. Altrimenti non la smettono più e si buttano a fare domande impertinenti. Dall’altro capo del filo parte un farfuglio di ringraziamenti e Dedé non può fare a meno di sorridere ai nonsensi dello spagnolo contaminato che utilizza la donna. «Sono veramente compromessa» sta dicendo «dalla disponibilità dei suoi modi calorosi.» «Dunque, arrivando in auto da Santiago, devo proseguire oltre Salcedo?» domanda la donna. «Exactamente. Poi, quando vede un enorme albero di anacahuita, gira a sinistra.» «Un… albero… enorme» ripete la donna. Si sta annotando tutto! «Giro a sinistra. Come si chiama la via?» «È semplicemente la strada accanto all’albero di anacahuita. Noi non diamo nomi alle strade» precisa Dedé, cominciando a scarabocchiare, per controllare l’impazienza. Sul rovescio di una busta abbandonata vicino al telefono del museo, ha disegnato un enorme albero, carico di fiori, con i rami che sconfinano sul lembo. «Vede, la maggior parte dei campesinos del posto non sa leggere, per cui non servirebbe a nulla dare dei nomi alle strade.» La voce ride, imbarazzata. «Ma certo. Penserà che sono proprio fuori da queste cose.» Tan afuera de la cosa. Dedé si morde un labbro. «Niente affatto» mente. «Allora ci vediamo nel pomeriggio.» «A che ora, circa?» vuole sapere la voce. Eh già. I gringos hanno bisogno di un orario. Ma non esiste un’ora precisa che stabilisca il momento adatto per certe cose. «A qualsiasi ora dopo le tre o le tre e mezza, diciamo le quattro.» «Orari dominicani, eh?» La donna ride.«Exactamente!» Finalmente la donna comincia a capire come si fanno le cose quaggiù. Anche dopo aver posato il ricevitore, Dedé continua a sviluppare il complesso di radici del suo albero di anacahuita, ombreggia i rami e poi, tanto per fare qualcosa, apre e chiude il lembo della busta stando a guardare l’albero che si spezza e ritorna intero.
In giardino, dalla radio accesa sotto la veranda della cucina, Dedé apprende con stupore che sono soltanto le tre. Ha aspettato con ansia fin dal dopo pranzo, ripulendo la parte di giardino che questa donna americana riuscirà a vedere dalla galena. Questa è senza dubbio una delle ragioni per cui Dedé è riluttante alle interviste. Senza rendersene conto, si costringe a dare una sistemata alla propria esistenza, quasi dovesse affrontare un’esibizione debitamente etichettata per coloro che sanno leggere: la sorella sopravvissuta. Di solito, se organizza le cose per bene – una spremuta fatta coi limoni dell’albero piantato da Patria, un giro veloce della casa in cui sono cresciute le ragazze – di solito, se ne vanno soddisfatti, senza porre quelle domande spinose che ogni volta lasciano Dedé persa nei ricordi per settimane, in cerca di una risposta. Perché, chiedono inevitabilmente in una maniera o nell’altra, perché è sopravvissuta proprio lei? Si china su quella che è la sua meraviglia, l’orchidea farfalla che si è portata di nascosto dalle Hawaii due anni fa. Per tre anni di seguito Dedé ha vinto un viaggio, il premio per aver stipulato il maggior numero di contratti per la compagnia. Sua nipote Minou le ha fatto notare più di una volta il risvolto ironico della sua «nuova» professione, in realtà intrapresa dieci anni fa, dopo il divorzio. È la migliore procacciatrice di assicurazioni sulla vita di tutta la compagnia. Chiunque è disposto a comperare una polizza dalla donna che è riuscita a non farsi ammazzare insieme alle sue tre sorelle. Lei non può farci nulla. Il rumore di una portiera sbattuta fa trasalire Dedé. Quando si tranquillizza, scopre di aver reciso l’orchidea farfalla, un esemplare da premio. Raccoglie il fiore caduto e ne spunta lo stelo con un tremito. Forse è questo l’unico modo di compiangere le cose grandi: con pezzetti, pizzichi, piccoli sorsi di tristezza. Però questa donna potrebbe chiudere le portiere con meno violenza. Risparmiare i nervi di un’anziana. E non capita solo a me, pensa Dedé. Qualsiasi dominicana di una certa generazione avrebbe fatto un balzo a quel rumore di schioppettata. Accompagna in fretta la donna attraverso la casa: la camera da letto di Mama, la mia e di Patria, ma soprattutto la mia, dato che Patria si è sposata tanto giovane, quella di Minerva e Teresa. Non dice che l’altra camera da letto era del padre, da quando lui e Mama smisero di dormire insieme. Ecco le tre fotografie delle ragazze, un tempo le preferite, ma adesso adornano i manifesti di ogni novembre, e ormai quelle istantanee, che erano così intime, sono diventate tanto famose che non sembrano più quelle delle sorelle che ha conosciuto. Dedé ha messo un’orchidea argentata in un vaso sul tavolino sottostante. Si sente ancora in colpa per non aver continuato l’offerta quotidiana di un fiore fresco alle ragazze, come faceva Mama. Ma la verità è che non ne ha più il tempo, con il lavoro, il museo e la casa da mandare avanti. Non si può essere una donna moderna e insistere con i vecchi sentimentalismi. Per chi era l’orchidea appena colta, a ogni modo? Dedé alza lo sguardo su quei tre volti giovani e capisce che quella che le manca di più è se stessa a quell’età. La donna dell’intervista si ferma di fronte ai ritratti e Dedé aspetta che le chieda chi è ciascuna e quanti anni avevano quando furono scattate le foto. Risposte che Dedé ha pronte, avendole date tante volte. Ma, invece, quella briciola di donna le domanda: «E lei dov’è?». Dedé ride imbarazzata. È come se la donna le avesse letto nel pensiero. «Riservo questo atrio alle ragazze» risponde. Alle spalle della donna nota la porta della sua stanza spalancata, la camicia da notte buttata sul letto, in penoso abbandono. Si pente di non aver fatto prima un giro della casa per chiudere le porte delle camere. «No, voglio dire, a che punto è lei nella sequenza, la minore, la maggiore?» Allora la donna non ha letto gli articoli e le biografie che ci sono in giro. Dedé è sollevata. Questo significa che possono dedicare il tempo a raccontare i fatti più semplici, quelli che danno a Dedé l’illusione di essere vissuta anche lei in una famiglia come tante altre: compleanni, matrimoni, nascite, i punti salienti in un grafico della normalità. Dedé ripercorre la sequenza. «Così veloci in età» constata la donna, usando una frase sconclusionata. Dedé annuisce. «Le prime tre di noi sono nate vicine, ma d’altro canto, vede, eravamo molto diverse.» «Ah?» domanda la donna. «Sì, molto diverse. Minerva era la paladina della giustizia.» Dedé si rende conto che sta parlando alla fotografia di Minerva come se stesse assegnandole una parte, riducendola a una manciata di attributi. La bella Minerva, intelligente e di nobili sentimenti. «E Maria Teresa, ay, Dios» sospira, e la voce tradisce la commozione. «Era ancora una ragazza quando è morta, pobrecita, aveva appena compiuto venticinque anni.» Dedé procede verso l’ultima fotografia e raddrizza il quadro. «Dolce Patria, la religione è sempre stata molto importante per lei.» «Sempre?» chiede la donna, con un impercettibile tono di sfida nella voce. «Sempre» conferma Dedé, abituata a quel linguaggio fisso e monolitico, con gli intervistatori e i mitizzatori delle sorelle. «Be’, quasi sempre.» Conduce la donna all’esterno sotto la galena, dove le aspettano le sedie a dondolo. Un gattino avventato è andato a sdraiarsi sotto i pattini e lo caccia via. «Cosa vuole sapere?» chiede Dedé bruscamente. Poi, dato che la domanda potrebbe sembrare un modo troppo rude di chiedere alla donna che dia conto di sé, aggiunge: «Perché c’è molto da raccontare». La donna ride: «Allora mi racconti tutto». Dedé guarda l’orologio, come per ricordare garbatamente alla donna che la visita è limitata. «Esistono libri e articoli. Potrei farle mostrare da Tono le lettere e i diari che si trovano al museo.» «Sarebbe fantastico» risponde la donna, fissando l’orchidea che Dedé tiene ancora in mano. È evidente che vuole qualcosa di più. Alza timidamente lo sguardo: «Bisogna che le dica che parlare con lei è molto semplice. Voglio dire, lei è così aperta e serena. Come fa a impedire che una tragedia del genere la deprima? Non so se riesco a spiegarmi». Dedé sospira. Sì, la donna si è spiegata benissimo. Pensa a un articolo che ha letto dal parrucchiere, scritto da una signora ebrea sopravvissuta al campo di concentramento. «Ci sono stati anche tanti anni felici. Io ricordo quelli. Ci provo, almeno. Mi dico, Dedé, concentrati sulle cose positive! Mia nipote Minou sostiene che pratico una meditazione trascendente, o qualcosa del genere. Ha seguito un corso nella capitale. Dico a me stessa, Dedé, nella tua memoria è il tal giorno, e ricomincio, facendo finta di vivere quel momento felice. Sono i miei film. Qui non ho il televisore.» «Funziona?» «Certo» risponde Dedé, quasi con orgoglio. E quando non funziona, pensa, mi incaglio rivivendo il solito brutto momento. Ma perché parlarne? «Mi racconti di uno di quei momenti» chiede la donna. Sul suo viso si legge la curiosità. Abbassa subito lo sguardo, come per celarla. Dedé esita, ma la sua mente sta già correndo all’indietro, anno dopo anno, dopo anno, fino al momento che ha fissato nella memoria come punto zero. Ricorda una limpida notte di luna, prima che cominciasse il futuro. Siedono al buio nella frescura, sotto l’albero di anacahuita del giardino di fronte a casa, sulle sedie a dondolo, a raccontare storie e a bere succo di guanabana. Fa bene ai nervi, dice sempre Mama. Sono tutti lì, Mama, Papà, Patria-Minerva-Dedé. Bang bang bang: esclama divertito il padre puntando il dito a pistola contro ciascuna come se le stesse colpendo, tutt’altro che fiero di averle generate. Tre bambine, nate a distanza di un anno l’una dall’altra! E poi, nove anni dopo, Maria Teresa, l’ultimo, disperato tentativo mancato di fare un maschio. Il padre ha le pantofole e tiene i piedi accavallati. Di tanto in tanto Dedé avverte il tintinnio della bottiglia di rum contro il bordo del bicchiere. Tante volte la sera, e questa non è diversa, una voce timida si leva nella notte, scusandosi. Sarebbero tanto gentili da offrire un calmante per un bimbo malato? Avrebbero del tabacco per un vecchio stanco che ha passato la giornata a grattugiare yucca? Il padre si alza, un po’ ciondolante per l’alcol e la stanchezza, e riapre il negozio. Il campesino se ne va con la medicina, un paio di sigari e qualche mentina per i figliocci. Dedé dice al padre che non capisce come riescano a cavarsela così bene, visto che lui regala tutto. Ma il padre si limita a posarle un braccio attorno alle spalle dicendo: «Ay, Dedé, per questo ho te, il piede morbido ha bisogno di una scarpa rigida». «Ci seppellirà tutti» aggiunge il padre ridendo «tra sete e perle.» Dedé avverte di nuovo il tintinnio della bottiglia di rum. «Sì, questo è certo, la nostra Dedé sarà la milionaria di famiglia.» «E io, Papà, e io?» pigola con la sua vocina Maria Teresa, per non essere lasciata fuori dal futuro. «Tu, mi napita, tu sarai la nostra piccola civetta. Tu farai venire a un sacco di uomini…» La madre da un colpetto di tosse, come a dire, attento a come parli. «…a un sacco di uomini l’acquolina in bocca» conclude il padre. Maria Teresa protesta. A otto anni, con le trecce lunghe e la blusa a quadri, l’unica cosa che la piccola desidera é un futuro che faccia venire a lei l’acquolina in bocca: dolciumi e grandi scatole da regalo, con dentro una cosa misteriosa che, quando si agitano, fa rumore. «E di me che dici, Papà?» domanda Patria con più flemma. È difficile immaginare Patria non sposata e senza un bambino sulle ginocchia, ma la memoria di Dedé sta giocando alle bambole col passato; le ha sistemate in quella limpida e fresca serata prima che il futuro cominci, Mama e Papa e le loro quattro belle bambine, non una persona di più né una di meno. Papà si rivolge a Mama perché lo aiuti nelle sue predizioni. Soprattutto, anche se non lo dice, perché teme che sia in procinto di censurare la chiaroveggenza dei suoi numerosi bicchieri di rum. «Che diresti, Mama, della nostra Patria?» «Lo sai, Enrique, che non credo nelle predizioni» dichiara Mama in tono pacato. «Padre Ignacio dice che le predizioni sono per i senza fede.» Nel tono della mamma Dedé intuisce già la distanza che si creerà tra i due genitori. Guardando indietro pensa, Ay, Mama, lascia perdere i comandamenti per un attimo. Usa la matematica cristiana, se dai un poco, ti ritorna cento volte tanto. Ma, pensando al proprio divorzio, Dedé deve riconoscere che la matematica non sempre funziona. Moltiplicando per zero si ottiene sempre zero, più mille dispiaceri.  «Neppure io credo nelle predizioni» interviene Patria. E religiosa come Mama, lei. «Però  Papà non sta facendo delle vere predizioni.» Minerva è d’accordo. «Papà sta solo confessando quali sono a suo parere i nostri pregi.» Sottolinea il verbo confessando come se il padre, riflettendo sul futuro delle sue figliole, compisse un atto di devozione. «Non è così Papà?» «Sì, senorita» biascica Papà, impastando le parole. «È quasi ora di rientrare.» «Inoltre» aggiunge Minerva «Padre Ignacio condanna le predizioni solamente se uno crede che un essere umano sappia ciò che solo Dio può sapere. Questo è pretendere troppo.» «Qui c’è qualcuno che sa tutto» commenta laconica Mama. Maria Teresa difende la sua adorata sorella maggiore. «Non è peccato, Mama, no. Berto e Raul hanno quel gioco che viene da New York. Padre Ignacio ci ha giocato con noi. È un tabellone con un bicchierino che bisogna spostare, e predice il futuro!» Tutti ridono, anche la mamma, perché la voce di Maria Teresa é un trillo di ingenuo entusiasmo. La piccola si blocca immediatamente, imbronciata. È così facile ferirla. Su incitamento di Minerva, continua a bassa voce: «Ho chiesto al tabellone cosa farò da grande e ha risposto: l’avvocato». Nessuno ride, questa volta, perché Maria Teresa, naturalmente, sta scimmiottando i progetti della sorella maggiore. Da anni Minerva si batte per andare alla facoltà di Legge. «Ah, Dios mio, risparmiami» sospira Mama, le è tornata l’allegria nella voce. «Proprio quel che ci serve, la legge in gonnella!» «Proprio di questo ha bisogno il paese.» La voce di Minerva ha assunto il tono duro e categorico di quando parla di politica. Da un po’ di tempo parla un sacco di politica. «Sarebbe ora che noi donne avessimo voce in capitolo nel governo del paese.» «Tu e Trujillo» la corregge Papa, un po’ troppo ad alta voce. Allora tutti ammutoliscono in quella limpida e tranquilla serata, e all’improvviso le tenebre si riempiono di spie pagate per origliare e riferire alla Sicurezza. Don Enrique sostiene che Trujillo ha bisogno di aiuto per governare il paese. La figlia di Don Enrique dice che é arrivato il momento di mandare le donne al governo. Parole ripetute, distorte, parole reinventate da chi forse li invidia, parole cucite ad altre parole fino a formare il sudario in cui la famiglia verrà sepolta, quando i loro corpi saranno trovati in fondo a un fosso, con le lingue tagliate per aver parlato troppo. Ora, come se cominciassero a cadere gocce di pioggia – ma la notte è cristallina come il suono di una campana – si affrettano dentro casa, raccolgono scialli e bevande, lasciando al guardiano il compito di ritirare le sedie a dondolo. Maria Teresa lancia un gridolino quando inciampa su una pietra. «Pensavo fosse el cuco» borbotta. Mentre aiuta il padre a risalire senza rischi i gradini della galeria, Dedé si rende conto che ha predetto soltanto il suo futuro. Su quello di Maria Teresa ha scherzato e non è arrivato a dire di Minerva e Patria, visto il parere contrario di Mama. Un brivido la percorre, lo sente nelle ossa, il futuro comincia. Quando sarà trascorso, sarà il passato, e lei non vuole essere la sola lasciata a raccontare la loro storia.
Julia Alvarez, Il tempo delle farfalle, Giunti edizioni

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