newsletter: Viva la curiosita

8 – A Castello: giochi da ragazzi (1943 -1949)


numero 17 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk – ottobre 2021


“Gualtiero leon, chi è forte mi segue, ma non deve andà avanti”. Queste parole imperiose (e magari anche un po’ arroganti) le gridavamo io e Angelo nella nostra cavalcata su due canne, che compivamo, uscendo di casa dopo la colazione. I rapporti fra noi due non erano scontati; qualche volta Angelo si rifiutava di accettare la mia maggiore età e, quindi, il mio maggior potere, la mia supremazia; ma con queste parole, “chi è forte mi segue”, io credevo di aver chiarito la natura dei nostri rapporti.

Mi sbagliavo: qualche volta lui disobbediva e anzi passando al contrattacco reagiva con violenza; come quella volta che mi rifilò un calcio al ginocchio. Io presi a urlare “m’ha rotto la rotella” e mia madre uscita di casa alla svelta, vedendomi ancora in vita sano e vegeto, ci disse di fare i buoni, altrimenti, al rientro di papà, gli avrebbe raccontato tutte le marachelle della giornata. Ancora una volta non ero riuscito ad ottenere giustizia con una esemplare punizione di mio fratello; mi sentivo frustrato.

Fra i nostri amichetti solo Giacomo, il figlio del farmacista, possedeva una bicicletta e la portava ai nostri giochi, ma non ce la metteva a disposizione. Però fra di noi ordimmo una trovata, uno stratagemma ben pensato: quello che di noi giocava meglio a palline era Vittorio e Vittorio sfidava Giacomo, mandando le partite per le lunghe; e, intanto, io e gli altri con la bicicletta facevamo giri veloci intorno al giardino rotondo, soprannominato “ju pulennò”, come ho già detto.

Un angolo verde, a disposizione per i nostri giochi, era “Ju cantò” (il Cantone), una piccola pineta in zona scoscesa e là, prima di iniziare a lanciare le stelle, sì gli aquiloni, tutti insieme sul ciglio della stradina che la  spaccava in due, rivolti verso il basso, facevamo la pipì, assegnando la palma del vincitore a chi mandava lo schizzo più lontano. Ma al Cantone si facevano gare ben più impegnative, come quella de ajazà la stella fino in cielo.

La stella non si comprava, come succede oggi sulle spiagge, da un ragazzo extracomunitario che ne trascina una decina, slanciate verso il cielo, una sopra l’altra. Si prendeva una pagina di giornale su cui si incollava (acqua e farina) una striscia di canna, incrociata con un archetto sempre di canna, teso da un resistente filo di sarto (quello lo fornivo io, rubandolo alla bottega di papà); le si applicava una doppia coda e, ai lati, due fiocchi svolazzanti. Si legava alla stella il filo di un gomitolo di cotone, comprato da Grazia, la pannara. Quando il vento era buono, perché soffiava nel verso giusto (verso il basso, non verso il paese), l’aquilone prendeva il volo “per il ciel turchino” tra un lungo urlo di noi fanciulli (vedi Pascoli, “l’Aquilone”). Se sopravveniva una raffica di vento troppo forte, il filo si spezzava e la stella rovinava precipitosamente giù a valle …

Chi se li ricorda i versi dell’Aquilone? Eccoli:

“…ognuno manda da una balza / la sua cometa per il ciel turchino. / Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, / risale, prende il vento; ecco pian piano / tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza. / S’inalza; e ruba il filo dalla mano, / come un fiore che fugga su lo stelo / esile, e vada a rifiorir lontano. / S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo / petto del bimbo e l’avida pupilla / e il viso e il cuore, porta tutto in cielo. / Più su, più su: già come un punto brilla / lassù, lassù… Ma ecco una ventata / di sbieco…”

Gualtiero

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