numero 20 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk aprile 2022
Superati gli esami di ammissione alle medie, il primo anno lo frequento in casa: professori esigenti mia madre e mio fratello Vittorio, laureando in lettere. Mia madre mi condusse a Tivoli per sostenere gli esami di prima media e ricordo che, fin quasi alla porta dell’aula di esami, mi rispiegava il concetto “un terzo di qualche cosa”, avendo in precedenza fatto in tre parti un pezzetto di carta e avendone indicato uno come “un terzo” …
In quel tempo per me la matematica era tabù, soltanto qualche anno dopo, in quarto ginnasio, sarebbe diventata una materia affascinante … : il nuovo insegnante ricominciò con le quattro operazioni, le frazioni, le operazioni algebriche, le qualità dei triangoli, le superfici, i perimetri, i volumi, affrontando problemi che mi intrigavano.
Per l’anno successivo alla prima media i miei (cioè mia madre) pensarono al collegio romano di Via Marsala, il salesiano “Sacro Cuore” (il grande Cristo dorato, visibile dall’enorme Piazza Cinquecento). Avevano già studiato Vittorio ed Enrico, i miei fratelli maggiori, presso i Salesiani della frascatana “Villa Sora”: la mia famiglia aveva ottenuto di pagare rette agevolate, date le nostre modeste condizioni economiche di “famiglia numerosa”. La Direzione del collegio romano garantì a mia madre un forte sconto sulla retta e così iniziò la mia esperienza salesiana al Sacro Cuore.
Nei tempi di ricreazione, noi ragazzi nel grande cortile d’ingresso giocavamo a pallone e ognuno rincorreva la palla della propria squadra fra le tante, che veloci circolavano nel cortile, non sempre evitando gli scontri con giocatori e palle di altre squadre. Nei minuti di ricreazione senza palla gli allievi, come si direbbe oggi, “secchioni” (e io fra questi), passeggiavano spesso camminando intorno a qualche insegnante: in queste situazioni, meglio dire frangenti, una mia iniziale difficoltà, che mi metteva a notevole disagio, era dare del Lei all’insegnante, una modalità di rapporto per me sconosciuta; e se mi scappava il “tu”, venivo subito redarguito dal prete-professore.
Ma più dolorosi e grevi alcuni altri disagi, che provai nel corso di quei mesi. In modo particolare mi ricordo quando quella volta mi recai al nostro piccolo spaccio interno, dove acquistavamo (poi la famiglia pagava oltre alla retta) dentifricio, saponetta, lacci per le scarpe, quaderni, penne, gomme (per cancellare, eh!); il prete addetto allo spaccio (no, la droga non c’entra!) alla mia richiesta, che non ricordo in cosa consisteva, osservò: “Ma tu Gualtiero stai attento (= “vacci piano”), non lo sai che stai a retta ridotta?”. E ricordo che quella notte ci piansi.
Ricordo ancora quell’ altra volta, quando fui chiamato dalle suore (erano “di clausura”: con loro si parlava da una ruota girevole, da cui si inoltravano i panni sporchi come le lenzuola e si ritiravano quelli puliti), per sentirmi dire che lenzuola di ricambio io non ne avevo più; l’ultima volta avevano dovuto rimediare con vecchie lenzuola di altri ragazzi. E io ancora una volta a piangere sotto le coperte. Sarà per questi episodi che poi mi sono “buttato a sinistra”? Chi lo sa? …
Un mio grande amico in quegli anni fu Ernesto, un ragazzo che frequentava la scuola un anno avanti a me. Un’amicizia resa più stretta dal fatto che io lo aiutavo a scrivere le lettere d’amore alla sua ragazzetta; e lui mi ripagava regalandomi qualche piccione ripieno, che gli portavano da casa: roba da far venire il languore allo stomaco, quando il piccione lo pensavi adagiato nella dispensa personale. Lui poi lo persi di vista, lo seppi diventato, anni e anni dopo, una persona importante, fino a ricoprire il ruolo di preside della facoltà di Chimica a Roma. Mi ricordo che quelli erano anni in cui imperversavano i sequestri di persona, perpetrati a fini di lucro e culminanti con la consegna del riscatto e qualche volta con la morte del malcapitato; il mio amico di collegio fu sequestrato, ma anche rilasciato sano e salvo dietro riscatto. Io queste notizie le ho apprese dalla stampa, ma noi due non ci siamo più visti, né sentiti.
Un evento era il pomeriggio del giovedì in parlatorio. Alle 15,00 affluivano i parenti (le madri quasi sempre); ma mia madre non è mai venuta: troppo da fare fra casa e scuola. A scuola le sue classi superavano i 50 bambini (come attestano gli atti dell’Archivio Comunale) e qualcuno era troppo vivace. Uno soprattutti. Mia madre raccontava che tramite il bidello aveva fatto chiamare il padre più volte; senza successo; ma alla fine si presentò la moglie, che le fece pressappoco questo discorso: “Sora Maé, maritimu ha dittu che ju stipendiu ju pii tu e tune cià da penzà: se ‘n te dà retta, daje ca sganassone”.
Madre e figli in parlatorio erano molto ciarlieri e io li ascoltavo invidioso, perché mio padre taceva e io, riferiti i voti della settimana, non avevo altro da dire; e niente da chiedere.
Gualtiero