numero 1 – Newsletter della Associazione Arcoiris – febbraio 2019
I piemontesi chiamano l’arancia dolce (Citrus sinensis o Citrus aurantius dulcis) portugal, non diversamente dai catalani (portogalle) o dai napoletani (purtualle) perché si diceva che i primi alberi d’arancio fossero stati portati dagli arabi nel XIV secolo in Portogallo da dove poi si sarebbero diffusi in tutta Europa. In realtà erano stati introdotti nella penisola iberica già qualche secolo prima, tant’è vero che fra il VII e il XII secolo molte poesie arabo-andaluse celebravano gli aranci insieme con i loro fiori. In Sicilia erano coltivati fin dall’inizio del XIII secolo.
“Raggia davanti all’uscio una gran pianta,
che fronde ha di smeraldo e pomi d’oro:
e pomi ch’arrestar ferno Atalanta,
ch’ad Ippomene dierno il verde alloro.”
Invece, l’arancio amaro o melangolo (Citrus bigaradia) giunse sulle coste del Mediterraneo perlomeno all’inizio della nostra era – se non prima – come albero ornamentale: probabilmente è un suo frutto quello dipinto su una parete della casa dell’Ara Massima di Pompei. Originario dell’Estremo Oriente, e precisamente della Cina meridionale, del Nord della Birmania e dell’Annam, l’arancio ha evocato ovunque un simbolismo paradisiaco. Secondo una fantasiosa interpretazione rinascimentale, le arance sarebbero state i pomi d’oro che Eracle conquistò nel giardino delle Esperidi, dopo aver ucciso il drago che le custodiva. Nel Rinascimento le arance furono inserite in un altro episodio mitologico, come spiega il Poliziano narrando di Atalanta:
Atalanta, figlia di Scheneo, re di Siro, abile cacciatrice, insuperabile nella corsa, aveva deciso di rimanere vergine. Ma il padre non era dello stesso parere e, poiché molti la chiedevano in sposa, stabilì che ogni pretendente si misurasse con lei in una gara singolare e pericolosa: l’aspirante marito doveva fuggire mentre Atalanta, armata di lancia, lo inseguiva. Se il pretendente fosse stato raggiunto entro certi limiti, sarebbe stato ucciso e la sua testa appesa all’entrata dell’arena. Fra i candidati vi era Ippomene, cui Afrodite aveva donato tre pomi d’oro purissimo, suggerendogli di gettarli a terra durante la corsa. Atalanta, incuriosita, rallentò l’andatura per raccogliere quegli splendidi frutti, e in tal modo perse la gara.
Sulla scia di questa leggenda il colore del frutto, simile a quello dell’oro ma anche del sole prossimo al tramonto, ha ispirato al rinascimentale Mattioli una fantasiosa etimologia secondo la quale il nome «aranci» sarebbe la traduzione di aurantia poma, ovvero «pomi d’oro». In realtà la parola è la traduzione-deformazione di un vocabolo persiano, narang, derivato probabilmente dal sanscrito naraganja, «gusto degli elefanti». Gli Spagnoli sono rimasti invece fedeli nella traduzione al persiano, chiamandolo naranja.
I fiori bianchi, detti in Sicilia zagare e il cui intenso profumo quasi stordisce, avrebbero dovuto evocare immagini sensuali; sono diventati invece il simbolo, nelle nozze, della Verginità della sposa. Un’ingenua e mielosa leggenda spiega l’origine di questa usanza: un giorno una giovane vergine che doveva sposarsi e non possedeva nessun gioiello vide crescere miracolosamente nel suo giardino una pianta dai piccoli fiori bianchi, carnosi e profumati; se ne adornò il capo, sicché da quel giorno le zagare diventarono simbolo della Verginità. Una volta in Sicilia ai fiori di arancio sul capo della sposa si accompagnavano i frutti, usati per decorare la bardatura dei buoi che trainavano il carro. I fiori del frutto amaro furono invece apprezzati dai profumieri per l’acqua profumatissima che se ne distillava, e dai medici per curare le febbri pestilenziali.
I fiori d’arancio giovano nelle sindromi ansioso-depressive e nelle nevrosi isteriche e fobiche. Sono un eccellente sedativo, utile anche nella cura dell’insonnia. Le foglie a loro volta posseggono un’azione ipnotica più spiccata e facilitano la digestione.
Quanto ai frutti, che sembrano autentiche incarnazioni vegetali del sole, sono ricchi di proprietà benefiche grazie alle vitamine C, A, 81, By, PP, Bs, B,6, E, al limonene, agli zuccheri, agli acidi ascorbico e citrico, alla pectina e a sali minerali. Sono reputati tonici, antiscorbutici, alcalinizzanti, digestivi, sedativi, vermifughi. Ben tollerati dai gastralgici, giovano agli epatici. Grazie a tali virtù il loro fiore ha evocato nel linguaggio d’amore ottocentesco il simbolo della Generosità.
Le arance – insieme con gli altri agrumi, dal cedro al limone – piacevano a tal punto che furono spesso raffigurate nei dipinti e affreschi dei pittori rinascimentali, dal Botticelli al Mantegna, dal Beato Angelico al Ghirlandaio, dal Veronese al Tiziano. Così l’Ariosto le faceva descrivere a Ruggiero mentre scendeva, cavalcando l’Ippogrifo, sull’isola di Alcina:
“[…] i vaghi boschetti di soavi allori,
di palme e d’amenissime mortelle,
cedri e aranci ch’avean frutti e fiori
contesti in varie forme e tutte belle,
facean riparo ai fervidi colori
de’ giorni estivi con lor spesse ombrelle;
a tra quei ram con sicuri voi
cantando se ne giano i rosignuoli”.
Il più famoso arancio d’Italia è quello situato in un cortile adiacente all’atrio del convento domenicano di Santa Sabina a Roma. Si favoleggia che sia stato piantato da san Domenico Guzmán quando nel 1220 fondò una comunità del suo ordine sull’Aventino.
In Andalusia gli aranci sono insieme con gli ulivi, gli alberi più caratteristici, piantati persino nei viali della città, come ricorda Federico García Lorca, scrivendo nella Piccola ballata dei tre fiumi:
“Porta fiori d’arancio, porta olive ai tuoi mari, Andalusia”.
E in un’altra poesia, Arancia e limone, evoca un difficile amore:
“Ahi della ragazza
del cattivo amore!
Arancia e limone.
Ahi della ragazza, della ragazza bianca!
Limone.
(Come splendeva il sole.)
Arancia.
(Nei sassolini
dell’acqua).”
(Tratto da: Alfredo Cattabiani, Floriario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, 1996, Oscar Saggi Mondadori, pagg. 637-639).
Patrizia M.