Domenica 5 dicembre 2004 – E – Sul Monte delle Fate.
Dicembre. Domenica cinque era. E pioveva. Ma te pare che arcoiris poteva – legger còre – cancellare l’escursione al monte delle fate? Lo so che non te pare e, ‘nfatti, partiti semo. Qualche defezione ci fu. Ma io muto starò. Alle ocho de la magnana (tilde non tegno), ci incontrassimo a largo … della primavera; e, difatti, de primavera manco l’ombra c’era.
Luciano, come sempre quando è lui la nostra guida, ci diede il depliantino multi cromato, che io come sempre fazzo, non l’ho letto: ca non voglio togliere all’escursione il piacere della scoperta. C’è brado e brado, direte voi. Forse. Ma questi bradi del mondo delle fate non li volevo contaminare con quella curiosità morbosa, che le cose un po’ le guasta sempre.
Fatto sta che, presa l’autostrada e usciti a Frosinone, siamo andati in direzione Priverno-Sonnino e, dopo qualche ziravai di troppo (ziravai è parola de ju paese meju che me piace assai), leggi: avanti e indietro (ma pure li santi – avrebbe detto Manfredi – pozzono sbajà), semo rivati a Sonnino, dove in effetti c’era poca gente sveja: ma se capisce, era domenica e, de domenica, la gente se stava a fa un gran sonno …
Dunque, lasciato Sonnino, svejj sveji ce incamminiamo verso ‘sto mondo delle fate. Ma subbito c’è un problema: che a Livia era scappato il cane e lo deve andà a ritrovà. Veramente lei a Diana o a Anna o a qualcun’altra aveva detto: “Guardateme ‘sto cane”. Ma quelle si erano distratte co lo magnà cornetti e biscottini paesani (dolci sapori che i buongustai in queste occasioni non si lasciano scappà). E, ‘ntanto, se perde tempo. Cammina che te cammina, ‘sto viottolo era sempre sassoso. E disagevole. Poi è cominciato a piovere. Mentre che il Monte delle Fate era proprio come il mondo delle fate, cioè che non si vedeva.
Inesistente. Insomma, ci gravava addosso più che un mondo favoloso, una cappa grigia e un po’ gelida, un’aria in giro più addatta ai lupi che ai cristiani. Tempo da lupi. E da briganti. Difatti, a un certo punto, non te scoprimo una targa a do’ se diceva che il brigante Meo Varrone era stato ammazzato, per avere “sbagliato la botta”? E così era proprio andata, se era il figlio in persona ad averlo sclamato. Tutto questo che io vi ho riportato, sulla lapide stava: gnente ho inventato.
E, intanto, pioveva. Fatto sta che dopo due ore e mezza, mentre che ‘ste fate continuavano a nascondese, Luciano, che era come ho detto la nostra guida, ma al dilà del nome, non poteva darci molta luce, visto e considerato che la nebbia ormai ci impediva di vederci anche fra di noi (e, pure con la nebbia, mi chiedo se Andreas me sta a capì), Luciano – dicevo – ha dato il contrordine: “Si torna indietro!”. Era quasi l’una ormai e all’una e mezza, mentre sempre pioveva, ci siamo fatti il panino quotidiano che Lui anche oggi ci aveva dato, con un po’ di frutta, e spizzicando un po’ qua e un po’ là, ma le gallette de mais te le magni tu (ma sì, sempre quella speciale de Livia), abbiamo finito il pranzo con i sigaretti de Andreas: sigaretti vetrosi contenenti acquavite (e questa non me l’aspettavo…).
Riarrivati a Sonnino, ma adesso erano tutti arzilli, siccome era presto (manco le quattro), abbiamo deciso che dovessimo annà (“andare” per Andreas) alla Bazzìa de Fossanova, che era bellissima con quel suo gotico semplice e severo; ma era anche buonissima con quei biscottini all’arancio, al limone; e ad altre cose (tiè, come parlo bè).
Insomma, signora Maé, come finivano sempre le cronache di una volta, eravamo stati tanto bene, ci eravamo divertiti tanto e siamo andati presto a letto per un lungo sonnino (aridaje) ristoratore. Gualtiero.