naufragar in questo mare: segnalazioni di libri, siti web, film e tanto altro riguardanti temi attinenti l’escursionismo e dintorni
settembre ’81
Viaggio in Corsica – “Ancora non sei stato in Corsica? Ma dài, ti stai perdendo qualcosa che vale la pena, una natura ancora selvaggia, primitiva, ecco la parola giusta, angoli incontaminati, gente generosa, un vino genuino e forte come la terra che lo esprime. Era il ritornello degli amici in questi ultimi anni. Finalmente ci siamo decisi: quest’anno si va in Corsica anche noi, vacane alla page, natura primitiva. Prenotiamo il traghetto Piombino-Bastìa per noi due, per la vecchia e lenta Kadett, troppo invadente, stando alle notizie che abbiamo di quelle strade, e per due amici, un po’ coppia e un po’ no, come si usa oggi, da dopo ’68 insomma. Insieme un quartetto di stagionati quarantini.
Partiamo la mattina del 16 agosto. Sbarcati a Bastìa, una scritta cubitale, FORA I FRANCESI, ci “ferisce” lo sguardo: ci ferisce perché da qualche mese anche noi, come tanti, nutriamo per la Francia un’improvvisa simpatia politica (già, Mitterand…). Per i quotidiani contatti sociali (sempre più importanti le humans relations) avevamo fatto molto affidamento sul nostro francese scolastico, ormai venticinquennale, rinverdito ogni tanto dai casuali incontri di campeggiatori francesi in Italia, ma anche in Spagna, Jugoslavia, Grecia, le solite tappe delle coppie democratiche a possibilità economiche medie, medio-basse.
Fortunatamente, fin dai primi giorni e con grande sollievo, ci siamo resi conto che il nostro italiano si accordava senza problemi con l’idioma còrso; ci confortava leggere insegne di trattorie intitolate “U furnellu”, “U spiedinu”, “A merendella”, “U riposu”, e via su questo tono. Un indigeno, al quale avevamo chiesto dove trovare un tabaccaio, aveva concluso la sua dettagliata spiegazione, punteggiata da espressioni un po’ sarde, un po’ genovesi e un po’ toscane (che poi è il còrso) con un: “Là, in fundu, in fundu, a manca”, che ci aveva lasciati a bocca aperta; e da oggi, la nostra vecchia e gloriosa kadett , che, senza fare storie, s’è fatta tutta la Corsica, ostenta su parabrezza un moro con la benda, il simbolo del luogo, e la scritta intorno intorno “so corsu e ne so fieru”.
La nostra destinazione era la foce dell’Ortolò, fra Bonifacio ed Aiaccio, un posto da favola ci avevano detto, fuori dalle carrozzabili; e lì arriviamo alle otto di sera, dopo quattro ore di automobile che ci avevano un po’ stancato: passare dalle nostre autostrade a quei fondi deformati qualche sballottamento pure lo comporta e la bassa schiena, sempre in agguato con i suoi reumatismi traditori, dava segni di essere entrata in agitazione. Un messaggio, pressoché invisibile, affisso all’imbocco di una stradina quasi invisibile pure lei, di certi nostri amici francesi, che già da qualche anno campeggiano alla foce dell’Ortolò, diceva, il messaggio, con cartesiana sobrietà “C’est là”; “Ma va” commento fra di me, mentre gli altri esplodono in un liberatorio “ci siamo!”.
E, invece, non ci siamo affatto: la strada è un dirupo, 15/20% di dislivello, è bianca, è sconnessa; ne assaggiamo a piedi 200 metri che ci sconvolgono; a me vengono in mente i calanchi carsici e ironizzo, ma solo mentalmente (è l’ironia che mi soccorre nell’avversità con Elsa che non condivide) sull’affinità carsico-corsico; e penso pure che, se con le ruote non ti piazzi sui denti dei calanchi, sei bell’e fregato, perché ti incagli e da lì, alle otto e mezzo di sera, non ti tira su manco gesucristo. Essendo passati tutti e quattro per le gloriose giornate del ’68, facciamo la nostra brava assemblea, per decidere il “che fare”; ma un fatto è già certo: siamo tutti molto preoccupati, di più io e Elsa, proprietari della macchina, che mi pareva ci guardasse con occhi mogi da bue, ma sotto sotto sogghignante.
Io, poi, comincio a riflettere meglio su certe anticipazioni che ci avevano fatto, parlandoci di quel posto aspro e selvaggio: niente acqua dolce, se non quella dell’Ortolò da condividere con le vacche, non una trattoria, non un alimentari, non un chiosco-bar, niente; tante vacche allo stato brado e allo stato brado avremmo dovuto vivere noi, noi abituati ai campeggi organizzati, forniti anche di celle frigorifere personali, dotati di docce fredde e calde (a gettone, naturalmente) e di servizi sempre puliti.
Dunque, prendendo il coraggio a quattro ruote, decidiamo di scendere. Io precedo a piedi, per esplorare meglio il terreno. E, dove le voragini sono più profonde, almeno come le vedo alle nove e mezza di sera, sconquassate balestre “io nel pensier mi fingo / ove per poco il cor non si spaura” (sia sempre lodato il soccorso della letteratura all’incombere di tragici frangenti). Appresso a me Vittorio con la torcia elettrica, fida amica del buon campeggiatore, fa strada a Elsa, che alla guida della kadett procede a passo di donna; Bruna, a piedi, chiude l’ansioso corteo.
Sono quasi le 22,00, quando arriviamo al fondo del ‘girone’ e laggiù c’è l’amico René che ci aspetta; e noi quattro, ciascuno per suo conto, osserviamo questo nostro amico, che conosciamo solo indirettamente e, intanto parla, come tutti i maschi francesi, una lingua per me incomprensibile: sarà stata la stanchezza, o chissà. Decifriamo a stento alcune parole: bagagli, battello (?); ma ciò che attira tutta la nostra attenzione è l’abbigliamento di René: giacca a vento e palle esposte alla dolce brezza della notte; proprio così. Mah. Ormai ci siamo, ci tocca ballare.
René ci dice, o almeno credo, che per giungere all’attendamento “il faut chéminer” (bisogna camminare) tre o quattrocento metri, ma se mettiamo i bagagli “sur le bateau” (sul battello?), arriviamo “a la place” con poca fatica. Infatti verifichiamo: basta tirare il bateau con una cordicella, immergendoci dalla cintola in giù nelle acque dell’Ortolò. Santo cielo, ma dove siamo capitati?
Qua e là comincio a intravedere, alla luce incerta di qualche torcia, sagome di vacche accovacciate e tutt’intorno cespugli piccoli e piccolissimi, ma anche tantissime merde di vacche. E’ in questo preciso istante che è scattato in me il richiamo della foresta: avevo una grande voglia di muggire, al pensiero che avrei dormito nella canadesina con la mia vacca-Elsa, attorniato dalla solennità delle vacche sdraiate e ruminanti; e con loro avrei diviso l’acqua del fiume, come avevo fatto da ragazzo.
Dopo una cena ‘rimediata’, ma abbondante, Bruna e Vittorio si allontanano con la torcia elettrica, per i loro bisogni, dicono. Trascorrono venti-trenta minuti, troppi anche per i bisogni più grandi, quando sentiamo le loro voci invocare un soccorso orientativo: la coppia, nel fitto dei tamerici, si era completamente persa e i rami e le vacche laggiù disegnavano figure eguali e indistinte.
Gualtiero