racconti dalla quarantena: resoconti di giornate fra cucina e soggiorno percorrendo viaggi fantastici o meno.
Roma, 28 aprile 2020
L’ha evocata Michele Mirabella alcune settimane fa alla radio; e qualche giorno dopo anche Gioele Dix, peraltro milanese. Così, poiché anch’io, modestamente, ho fatto il classico, ho preso la scaletta, tirato giù I promessi sposi, e aperto il capitolo XXXI. La peste a Milano. Fatelo anche voi! Non avete idea di quante analogie saltino fuori fra la peste manzoniana e la pandemia attuale, o, meglio, fra i comportamenti umani di allora e di adesso.
Se non ne avete voglia, perché i ricordi delle scuole superiori vi rimandano ad un romanzo noioso, con tutte quelle lunghissime gride, eccovi un bignamino, costellato qua e là di richiami alle incredibili somiglianze con gli eventi attuali.
Dunque, nel settembre del 1629 le truppe lanzichenecche calano in Lombardia al seguito del Wallenstein per sostenere le pretese ereditarie di Ferrante Gonzaga sul ducato di Mantova e Monferrato (l’altro pretendente era Carlo di Gonzaga Nevers, sostenuto dalla Francia). Mentre la Spagna di Filippo IV d’Asburgo assedia Casale, gli imperiali si dirigono verso Mantova, portando devastazione e peste.
Già nel 1576-77 c’era stata una peste, non limitata solo al territorio lombardo, ma a Milano nota come peste di San Carlo, perché, mentre i governanti spagnoli erano fuggiti verso luoghi salubri, l’arcivescovo Borromeo tornò da Lodi (all’epoca meno inguaiata dal virus, di quanto non lo sia stata ora) a dar sollievo ai milanesi. 53 anni dopo ci risiamo.
Il primo a dare l’allarme (l’Annalisa Malara dell’epoca, diciamo così) è l’ormai ottuagenario protofisico (più o meno equivale a ufficiale sanitario) Lodovico Settala, che, giovanissimo, si era adoperato contro la peste di 53 anni prima e ora, il 20 ottobre 1629, riconoscendo i segni del morbo sconosciuto ai più, riferisce al Tribunale di sanità che nel territorio di Lecco, ai confini col bergamasco (triste destino che si ripete, quello del territorio di Bergamo), è scoppiato il contagio. Non viene preso nessun provvedimento.
Poco dopo, da altre località arrivano allarmi simili e il Tribunale si decide almeno a mandare un commissario, che raccatta un medico lungo la strada e con quello si dirige a Bellano, dove un “ignorante barbiero”, come riporta il medico Alessandro Tadino (assieme al canonico Giuseppe Ripamonti una delle fonti principali del Manzoni), li convince non trattarsi di peste ma degli effetti delle emanazioni autunnali delle paludi, uniti agli strapazzi dovuti al passaggio degli alemanni. Insomma, anche allora “poco più di un’influenza”. Il fatto grave è che 391 anni fa lo diceva un cerusico ignorante, stavolta, purtroppo, lo hanno detto fior di esperti infettivologi, pronti a ritrattare con bronzea disinvoltura. Per tacere di statisti (?) nostrani e non. E di giornalisti. E di opinionisti (!).
Torniamo all’autunno del 1629. Strada facendo, il commissario e il medico incontrano paesi con gli accessi sbarrati (zone rosse anche allora) e “abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi”. Personalmente non me la sento di giudicare quei genitori che l’8 marzo scorso avranno detto ai figli studenti al Nord: “Figlio mio, torna a casa prima che ti blocchino!” ma certo quella fuga sui treni notturni non è stata un bello spettacolo né un evento senza conseguenze per il Sud così poco attrezzato sul piano sanitario.
Continuiamo ad accompagnare i due personaggi. Che incontrano un popolo sbandato nelle campagne, selvatico alla vista, che cerca di difendersi dal contagio portando in mano “chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino, chi un’ampolla d’aceto” (nel cap. XXXIV si dirà anche del ricorso a pasticche odorose, palle di metallo o di legno traforate con dentro spugne intinte in medicinali, ampolle di argento vivo). Diciamo così: le mascherine e l’amuchina dell’epoca.
I due commissari riferiscono della quantità spaventevole di cadaveri, e prendono le prime sommarie iniziative. Il Tribunale della sanità, ormai al 30 di ottobre, non fa altro che disporre che sia vietato l’accesso a Milano alle persone provenienti dai luoghi infetti, che risultino prive di documento sanitario (diciamo, una sorta di certificazione di tampone negativo). Al 14 di novembre, dopo aver inviato al Tribunale di sanità altre allarmanti relazioni, i commissari sono da questo rinviati al Governatore, il quale, dopo aver mostrato “grande sentimento”, chiarisce le priorità: belli graviores esse curas, le preoccupazioni della guerra sono più importanti. Un po’ “Milano non si ferma!” o “Bergamo running!”. Oddio, c’è stato pure, fra i nostri, chi aveva capito la gravità della cosa e aveva preso provvedimenti. Poi, però, gli imprenditori hanno temuto di non poter imprendere e quel Governatore (chiamano, impropriamente, così anche questi odierni) ha fatto macchina indietro, gridando alla “pandemia mediatica”, alla “psicosi internazionale”. Aveva, però, (quasi) fatto in tempo ad annullare i festeggiamenti del Carnevale. A differenza del Governatore Ambrogio Spinola, che il 18 novembre 1629, pochi giorni dopo quel colloquio, indìce pubblici festeggiamenti per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV. Analoga indifferenza per il rischio incombente – dice Manzoni – manifestano tutte le altre magistrature e la stessa popolazione. 391 anni dopo fate voi la lista di coloro che hanno mostrato la stessa colpevole sottovalutazione, in Italia e fuori.
Torniamo alla Milano della fine del 1629. Quella decisione in merito alle “bullette”, cioè i lasciapassare sanitari per entrare in Città, presa il 30 ottobre, si concretizza con la stesura della relativa grida il 23 novembre e la pubblicazione il 29: è passato un mese e la peste è già a Milano. A distanza di quasi quattro secoli, purtroppo, in più di un caso dobbiamo lamentare la stessa “lentezza […] portentosa” di cui si duole il Manzoni (le certificazioni per l’immissione in commercio delle mascherine, l’iter per le agevolazioni alle imprese … continuate voi l’elenco).
Le due fonti cui si rifà il Manzoni tengono in modo particolare ad indicare chi portò per primo la peste a Milano, chi ebbe “la precedenza nell’esterminio”. Insomma, chi fu il paziente uno. E, allora come ora, non c’è univocità. Per entrambi gli storici si trattò di un soldato italiano al servizio della Spagna: per il Tadino si chiamava Pietro Antonio Lovato, acquartierato a Lecco ed entrato a Milano il 22 ottobre, per il Ripamonti era Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna, in Milano dal 22 novembre. Per l’attuale epidemia si indica il famoso Mattia di Codogno, ma una voce autorevole addita una provenienza bavarese, da un meeting cui aveva partecipato una funzionaria cinese infetta: da Monaco il virus, attraverso un collega tedesco, sarebbe entrato in Italia nella terza decade di gennaio. E dall’Alemannia portò il morbo anche il fante italiano, dal momento che pare recasse con sé panni infetti, acquistati o rubati a soldati alemanni (sarà questa anche la sorte del Griso, che non rinuncerà a frugare nei panni di Don Rodrigo, alla ricerca di denaro).
Avuta certezza della natura del male, il Tribunale di sanità intervenne stavolta prontamente , segregando la famiglia dei parenti presso i quali si era recato in visita il soldato e bruciando i panni ed il letto del malato, spegnendo così sul nascere quel focolaio. Ma altri ne erano nati, a partire dalla casa dove il fante era a pigione. A quel focolaio si aggiunsero quelli innescati da quanti ancora riuscivano ad entrare in città e sotterraneamente ma inesorabilmente il male si diffondeva indisturbato con decessi sporadici fino ai primi mesi del 1630, grazie alla “imperfezion degli editti” (che tanto ricordano l’odierno accatastarsi di provvedimenti imprecisi e contraddittori emanati dalle varie autorità), alla “trascuranza nell’eseguirli”, alla “destrezza nell’eluderli” (i furbetti che non mancano neanche oggigiorno).
La paura di subire il sequestro della casa ed essere spediti al lazzaretto senza fondamento alcuno ma per mera vessazione alimentava il risentimento verso il Tadino (medico, oltre che cronista della peste) e Senatore Settala (figlio del protofisico Lodovico) nonché verso gli altri medici, che cercavano di diffondere l’allarme in città, divenuti bersaglio di parolacce e sassate, e addirittura bollati con l’epiteto di nemici della patria (pro patriae hostibus, riporta il Ripamonti): come non pensare al giovane medico cinese che per primo ha dato l’allarme, salutato come eroe da morto, dopo essere stato messo a tacere dalle autorità locali?
Verso la fine del mese di marzo del 1630, cioè dopo più di cinque mesi dal primo allarme, le morti diventarono troppo frequenti e brutalmente repentine; i medici che avevano negato trattarsi di peste inventarono una “trufferia di parole” per dare un nome alla nuova malattia e parlarono di febbri maligne, nascondendo nelle parole la gravità del fatto che la malattia si propagava per contagio. Ancora la “normale influenza” ….
Il Tribunale di sanità uscì finalmente dal suo colpevole sonno e, per le spese del lazzaretto e degli altri servizi necessari, chiese il denaro ai decurioni, “intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all’erario regio”. Il pensiero necessariamente va all’odierna faticosa trattativa fra Italia e Ue, dove – dispiace notarlo – proprio le donne di vertice (Christine, Ursula, Angela) dimostrano egoismi ed insensibilità di fronte ad un problema nel quale l’Italia è stata solo la sfortunata apripista. Ai decurioni si rivolgeva anche il Senato milanese perché provvedessero al vettovagliamento di Milano prima che gli altri paesi troncassero i rapporti commerciali e perché si occupassero di quanti avevano perso il lavoro. Stiamo sperimentando anche noi di quale importanza siano l’approvvigionamento dei generi di prima necessità (perché mi viene in mente il lievito?) e lo stato di bisogno dei nuovi disoccupati. Ma anche il gran cancelliere chiedeva soldi ai decurioni, perché il Governatore era di nuovo partito per dare assedio a Casale e abbiamo già capito quale fosse la priorità. La richiesta di denaro per le spese e di sospensione delle imposizioni camerali (già attuata 53 anni prima) sarà dai decurioni rinnovata al Governatore nel mese di maggio, ancora con esito nullo (Manzoni ne dà conto al principio del cap. XXXII).
Frattanto, nel lazzaretto imperavano disordine, sfrenatezza, connivenza. Come non pensare alle odierne efferatezze compiute nei luoghi di cura (furti di mascherine, fughe di sanitari, assalti di hackers e molto altro)? Per “governare quel regno desolato” il Tribunale di sanità e i decurioni si rivolsero al padre provinciale dei cappuccini, che inviò padre Casati e padre Pozzobonelli, appresso ai quali arrivarono ben presto schiere di cappuccini, man mano che cresceva “la miserabile radunanza” di ammalati, che arrivò a 50.000 in 7 mesi. E quei frati furono amministratori, confessori, infermieri, cucinieri, lavandai. Anche qui, il pensiero va alla moltitudine di medici e infermieri che hanno risposto all’appello del Governo per gli ospedali della Lombardia allo stremo. E, come quei frati accorsi volontariamente “ci lasciarono la più parte la vita”, così gli odierni medici e infermieri hanno spinto a decine la loro dedizione fino al sacrificio estremo. A loro aggiungerei gli addetti alle pulizie degli ospedali, facendo mia l’attenzione che sulla loro attività, modesta ma mai come oggi pericolosa e fondamentale, ha posto solo un giovane inviato Rai, di cui mi piace ricordare il nome: Giuseppe La Venia. Oggi si salutano medici ed infermieri come eroi. Io voglio qui adattare loro le parole usate da Manzoni per quei frati cappuccini: “[…] meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa”.
Quando l’evidenza diventa lampante perché il male ormai tocca anche le classi elevate (compreso il Settala e la sua famiglia), quelli che potremmo definire “negazionisti”, invece di ammettere che la diffusione è dovuta al contagio, cioè a qualcosa di naturale, per non dover ammettere “a un tempo un grand’inganno e una gran colpa”, diffusero la voce che si trattava di opera diabolica da parte di congiurati che con arti malefiche e veleni spargevano la peste: gli untori, di cui si era favoleggiato in tutta Europa in occasione di precedenti epidemie, inclusa quella del 1576. Il sospetto di una natura terroristica della diffusione del male sembrò trovare prova certa nel fatto che la sera del 17 maggio 1630 alcune persone credettero di vedere qualcuno che ungeva l’assito che in Duomo separava gli spazi per le donne da quelli per gli uomini; bastò che il Presidente del Tribunale lo facesse portar fuori per lavarlo, più per tranquillizzare il popolo che non per riconosciuta necessità, che ne sortì l’effetto opposto, di conferma dell’avvenuta unzione. La mattina seguente su molte porte e mura di città compare una “sudiceria, giallognola, biancastra”, che il Tribunale di sanità ritiene più un gioco di cattivo gusto che non un atto di scelleratezza. Ma la città ne è sconvolta e comincia una caccia all’untore, che, tuttavia, non porta a nessuna condanna. Commenta il Manzoni: “le menti erano ancora capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere”. Anche se quelle stesse menti, contestualmente, emanavano una grida in cui promettevano premio a chi indicasse i responsabili del delitto. E, sempre quelle menti illuminate, per convincere quanti ancora, assurdamente, negavano la peste, decisero di far svolgere il trasporto di una famiglia morta di peste mentre era in corso una delle cerimonie per la Pentecoste, che si svolgeva nel Cimitero di San Gregorio in suffragio dei morti dell’altra peste. Il passaggio del carro con gli spaventosi cadaveri nudi di quella famiglia certamente convinse molti degli increduli, ma altrettanto certamente concorse a propagare il contagio.
Riassume il Manzoni: “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altr’idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.
Il 4 maggio 1630 i decurioni chiedono al cardinale Federigo che si faccia una processione col corpo di San Carlo. “Il buon prelato” dapprima rifiutò, dispiacendogli la fiducia riposta in un mezzo arbitrario e temendo le conseguenze in caso che quella fiducia non fosse stata premiata dall’effetto desiderato; inoltre, temeva che, se gli untori esistevano, la processione avrebbe dato loro modo di spargere ampiamente il loro veneficio; da ultimo (solo da ultimo!), temeva che quello che oggi tanto temiamo, l’assembramento, potesse agevolare la diffusione del male. Ma nuovi presunti episodi di unzioni e la richiesta sempre più pressante del popolo fecero cedere il cardinale: l’11 giugno la processione uscì di primo mattino dal Duomo e fece il giro di tutti i quartieri. Il giorno dopo, a dispetto della fanatica sicurezza, le morti ebbero un aumento spropositato (a me la data del prossimo 4 maggio mette una gran paura, e a voi?). E, contrariamente ad ogni buon senso, se ne attribuì la causa non all’assenza di quello che oggi chiamano “distanziamento sociale” ma all’empio disegno degli untori che nella folla avevano agito indisturbati, stavolta non usando impiastri appiccicosi (di cui non si poté trovare traccia) ma polveri venefiche, che si attaccavano alle vesti lunghe ed ai piedi nudi dei tanti che avevano seguito scalzi la processione. Il 4 luglio una lettera dei conservatori di sanità al Governatore parla di una mortalità giornaliera arrivata a 500 decessi, e nelle settimane successive si arrivò a millecinquecento al giorno: sembra il desolante bollettino delle 18 che leggeva il nostro Borrelli. Le cifre erano contraddittorie: alcuni storici riportano un totale di 64.000 sopravvissuti su 250.000 milanesi; altri parlano di 140.000 morti su 200.000 abitanti, ma l’urgenza degli interventi fece sì che molto sfuggì alla registrazione. Oggi, che avremmo i mezzi per adottare criteri univoci a livello europeo, dobbiamo vedercela con Paesi che tengono conto dei decessi con corona e quelli che conteggiano solo i decessi per corona, in una ridicola competizione.
Ai decurioni il compito sempre più arduo di provvedere alle pubbliche necessità, arruolando monatti, apparitori e commissari, una via di mezzo, quanto alle competenze, fra personale della protezione civile e quello del 118, assunti mese per mese, nell’impossibilità di prevedere quanto sarebbe durata l’emergenza. “Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparare nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno”. Non c’erano mascherine e respiratori da reperire ma le necessità sono molto simili alle attuali. Furono costruite in fretta capanne nel lazzaretto, poi un nuovo lazzaretto da 4.000 posti, quindi ne furono progettati altri due. Così oggi i vari ospedali da campo nei tendoni e all’interno dei padiglioni fieristici, messi su con straordinaria abilità e rapidità.
Ma l’emergenza era superiore alle forze impiegate e i disperati decurioni, cui ancora una volta era stato risposto picche dal Governatore, dovettero ricorrere di nuovo ai cappuccini perché sgomberassero la città dai cadaveri. I frati reclutarono duecento contadini e fecero scavare tre fosse comuni, per seppellire i cadaveri presenti e futuri. Non dimenticheremo mai, credo, i camion dell’esercito carichi di bare, diretti a depositi fuori regione né la notizia (23 aprile) dei 61 morti di coronavirus sepolti nel campo 87 del cimitero di Milano e che nessuno reclama.
Almeno in una circostanza l’oggi è superiore all’ieri, a proposito della carenza di medici, cui allora si supplì a fatica con promessa di denaro e onori, ed oggi con immediata risposta di migliaia di volontari, di ogni età e provenienti da tutta Italia.
Come spesso accade nei momenti eccezionali, ci fu una sublimazione della virtù, nei tanti che si diedero ad opere di carità (Manzoni ricorda soprattutto i parroci, che morirono in numero di 60, gli otto noni del totale), ma anche un aumento delle perversità, segnatamente nei monatti, che svaligiavano le case dei morti e ricattavano i vivi con la minaccia di trascinarli al lazzaretto (una sorte del genere toccò a Don Rodrigo, tradito dal Griso). E c’erano pure quelli che, campanello al piede, si fingevano monatti per introdursi nelle case e saccheggiarle. Fa veramente tristezza pensare a coloro che, anche oggi, si sono presentati nelle case, fingendosi medici o infermieri per tamponi a domicilio o per distribuire mascherine.
E in tutto ciò crebbe il sospetto reciproco e il delirio delle unzioni (un po’ come noi abbiamo fatto con i pregiudizi sui runners), nato nel popolo ma fatto proprio dai dotti, incluso lo stesso Tadino e finanche il cardinal Federigo, di cui rimane un’operetta manoscritta all’Ambrosiana, in cui l’autore ammette che ci fosse qualcosa di vero in quelle pratiche malefiche. Dotti, che, per soprammercato, additavano la causa prima del male nel passaggio di due comete (una nel 1628, l’altra nel 1630) nonché nella congiunzione di Saturno con Giove nello stesso anno 1630. E meno male, aggiungo io, che non era pure bisestile. Mentre il 2020 …, ma io non credo a queste cose: ci sono pure nata di bisestile!
Volevo fare un bignami e, invece, mi sono tenuta lunga. Per rimediare, degli altri capitoli vi do solo qualche flash, alla ricerca di somiglianze.
Quasi un istantanea di oggi, quando, nel cap. XXXIV, Manzoni parla dei gentiluomini che si vedevano, senza seguito, “con una sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici, quando pur due s’incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni taciti e frettolosi”.
Ce n’è anche per le capigliature, sia pure per motivi diversi da quelli attuali, e cioè a causa del discredito in cui erano caduti i barbieri perché uno di loro era stato arrestato come untore: “lunghe le barbe di quelli che usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe pure e arruffate le capigliature […]” (cap. XXXIV).
C’è una notizia che mi ha colpito nelle prime settimane di diffusione del morbo, e cioè l’aumento della vendita di armi negli Stati Uniti: da noi si faceva la fila per la carta igienica e il lievito, da loro per la carta igienica e le pistole. Beh, gli americani del terzo millennio non sembrano aver fatto molti passi in avanti rispetto ai milanesi del 1630: “I più tenevano da mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse voluto avvicinarsi troppo […]” (cap. XXXIV).
Inizio del cap. XXXV: Renzo, alla ricerca di Lucia, entra nel lazzaretto e la descrizione non può non richiamarci alla mente i pronto soccorso sovraccarichi delle scorse settimane, con le lettighe nei corridoi. “S’immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichio, come un ondeggiamento; e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi”.
Voglio chiudere con le parole usate da Don Abbondio quando incontra Renzo, tornato al suo paese, nel cap. XXXIII. Don Abbondio pensa forse alle conseguenze per sé di ulteriori “spropositi” da parte di Renzo ma mi piace piegarle ad una considerazione sui tempi di oggi: “Se quelli che restano non mettono giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non c’è più altro che la fine del mondo”.
Vabbè, se avete avuto pazienza e avete letto fin qui, vi prometto che la prossima volta sarò molto più succinta. Il tema: la descrizione della peste scritta da Eracleonte di Gela nel 233 a. C.
Marina M.
Grazie infinite di questa illustrazione che ci ha davvero fatto considerare le occorrenze di ieri e quelle di oggi e la loro palmare somiglianza. A un certo punto Manzoni racconta che per non urtare le muraglie, la gente di Milano andava vestita con abiti attillati, dismesso ogni scialle o cappa di mantello, perché la stoffa non sventolasse ed entrasse in contatto con altri vestiti, con manufatti urbani. E così, quando la fila mi affatica fuori dal supermercato, vedo che mi guardano male se mi appoggio alle ringhiere, se mi siedo sui muretti.
Ma sono una guardia, io, e siccome da questi studi sulla peste Manzoni ha tratto un saggio storico di grande riflessione, sull’inutilità della tortura vi invito davvero a leggere STORIA DELLA COLONNA INFAME perché se non è più facile dei PROMESSI SPOSI, è almeno più breve.
La storia di quel barbiere untore e del tragico processo che ne seguì, è l’occasione per far capire come non si deve amministrare la giustizia, ieri come oggi. Un libro di filosofia giuridica di particolare utilità, per tutte le persone di legge e non solo, in ogni tempo.
Marina, Marina… sono stati in tanti a ricercare paragoni nella letteratura in questi lunghi giorni. Chi Camus, chi Saramago, chi Boccaccio e chi Manzoni. Tu però sei andata oltre e ti sei riletta con molta attenzione praticamente tutta quella parte del romanzo che riguarda la diffusione della peste a Milano trovando tutte le somiglianze con la situazione attuale. Complimenti. Io ricordo abbastanza bene i “Promessi sposi” e ne ripercorro alcune parti con le mie classi, ma non certo così dettagliatamente, sono delle medie eh…
“Storia della colonna infame”, invece, è uno di quei libricini che stazionano nella mia libreria da anni (edizione l’Unità) e forse è arrivato il momento di prenderlo in mano.