Bacheca, Parole al vento

Parole al vento, n. 10

Redazione

lbaldini

Roma, 26 febbraio 2021


Freddo

Il numero del 26 febbraio 2021

Tema


Il freddo in altitudine è un nemico spietato. I piedi insensibili, le mani ghiacciate, i brividi e i denti che battono. Che brutte sensazioni! Basta uno scarpone che non tiene e l’escursione sotto la pioggia o in mezzo alla neve diventa una marcia angosciosa. Un riparo qualsiasi e un thè o un caffè caldo, ci vuole poco per essere felici.


“Freddo il grembo come una rana d’inverno.”
da Se questo è un uomo di Primo Levi


colonna sonora


Ma che freddo fa – vai alla canzone
canta Nada, testo di Franco Migliacci e musica di Claudio Mattone.
proposta da Luca A.


Svolgimento


pensieri


Il freddo è capace di sussurrarvi all’orecchio brutte storie, racconti tristi che rendono l’umore grigio. Il freddo lo vedete dalla finestra, mentre allunga le dita di nebbia e ghiaccio attraverso la notte, invadendo lento e inesorabile le strade e i pensieri. Non c’è esercito che possa opporsi all’invasione del freddo. Arriva come una condanna e non potete farci niente. Solo aspettare, e pregare di sopravvivere ancora.
Maurizio de Giovanni, Gelo: per i Bastardi di Pizzofalcone, Einaudi 2014


a proposito di freddo una pagina del mio diario di guardia municipale
Laura M.


Luca A.:
…una gelida accoglienza… uno sguardo freddo e distaccato… tra di loro calò, improvviso, il gelo… un uomo freddo e spietato… una storia agghiacciante… un posto freddo in fondo al cuore… Ci ho pensato e ripensato, ma mi sembra proprio che al freddo, in tutte le sue forme, venga sempre e solo associato un significato negativo… o no??

Luciano C.:
Solo se non ti piacciono le granite ghiacciate , o uno Jagermaistet ghiacciato, o una giornata gelida ma assolata

Rossella G.:
Ma Luca…e i gelati?!

Luca A.:
Io di natura sono piuttosto caloroso; ho cercato di ricordare in quale occasione della mia vita io abbia patito veramente il freddo… forse quella volta da militare, un gennaio di tanti anni fa, durante una guardia notturna sopra un’altana esposta ad un gelido vento di tramontana…
E voi?

Caterina B.:
– L’aria frizzantina che entra nel naso quando arriva il vento di tramontana e pulisce l’aria. Il freddo pungente che annebbia la mente. La gioia di grandi e piccini quando nevica, soprattutto di quelli che arrivano dai Paesi caldi.
– Fa freddo: ottima scusa per una buona cioccolata calda o per il caffè alla valdostana bevuto nella grolla, o coppa dell’amicizia, praticamente più grappa che caffè.
– Dobbiaco -20 dalle 5 del pomeriggio in poi, a quel punto ho capito a cosa servissero le maschere (né di carnevale né chirurgiche) che vendevano nei negozi di zona.

Gabriella D.:
Io adoro il caldo e nei posti freddi non so mai come proteggermi mi sembra sempre di essere troppo leggera… Il mio posto più freddo? Capodanno in Alsazia – 15

Rossella G.:
Comunque il mio rapporto con il freddo lo conoscete in parecchi…ci vorrebbero parole e parole al vento per raccontare quando ho avuto veramente freddo. Farei prima a dirvi quando ho avuto veramente caldo…vorrei accontentarvi ma se ho avuto gravemente freddo non lo posso ricordare… quel freddo lì mi istupidisce completamente… e fermi con i commenti 😊

Francesca M.:
” La teoria dei 28 gradi freddi”… C’era una volta l’estate con i suoi 40 gradi in alcune ore delle giornata. In quelle giornate arroventate in cui anche l’asfalto si squaglia quando verso sera la temperatura scende sotto i 30 gradi, diciamo 28, quelli sono gradi caldi perché portano con loro il calore della giornata ma se confrontati alle sensazioni provate verso le 14.00 allora… diventano 28 gradi freddi. Ancora, quando l’autunno ormai è arrivato ma con un colpo di coda l’estate ancora si mostra e fa alzare la temperatura fin quasi a 30 gradi… Beh quelli sono 28 gradi benedetti e caldi da un lato, ma dall’altro non così “carichi” del calore dell’estate piena.. quindi in un certo senso sono anche loro… 28 gradi freddi!!!


Stamattina sono uscita a fare la mia camminata quotidiana. Il vento era freddo. Lui e io non siamo mai stati amici. Mano a mano che camminavo e il mio corpo si riscaldava ho cominciato a sentire che il vento freddo non era più freddo, era fresco. Ho respirato profondamente, che gioia respirare quest’aria fresca e ristoratrice! Mi sono resa conto che l’apprezzare il freddo dipende dal calore che hai dentro, anche nel cuore.
Adriana H.


arguzie


Gualtiero T.:
Che gelida manina; te la lasci riscaldare…
O sennó scendi in cantina, 
un litrozzo a trangugiare (immortale poesia)


estrosità


Nuota 80,9 mt sotto il ghiaccio, record di David Vencl – vai all’articolo di Rainews


Mi chiamo Lorenzo Barone in questo momento sto attraversando la Jakuzia, Siberia orientale,  in bicicletta verso la strada più a nord del mondo. Mi trovo nel sacco a pelo a meno 35 gradi e ci saranno  2770 km circa per arrivare fino alla fine del viaggio, in un periodo di circa 2 mesi. Adesso ho percorso i primi 200 chilometri e mi sto mettendo a mio agio con questo clima, con questo ambiente.
Di giorno pedalo e la sera devo fare la buca nella neve. Ho con me una pala abbastanza leggera, di un chilo. Con la pala scavo una buca di circa  3 mq dove pianto la tenda a bordo strada.
Devo sciogliere la neve per versarla nel thermos, per cucinare e mangiare qualcosa di caldo. La strada per il momento è tranquilla e la temperature in questi giorni sono più alte del solito.
La settimana scorsa si stava sui meno 50, oggi si è saliti fino a meno 30, 25 gradi. E abbastanza caldo di giorno. Di notte fa ancora un po’ fresco però e un’ondata di caldo che durerà poco,  poi si tornerà a meno 45, 50 gradi e quindi sfrutto questi giorni per coprire la distanza più lunga. Il viaggio è difficile da Mirny verso nord, da qui fino a Mirny è abbastanza semplice.
Testimonianza a Caterpillar, tramissione di Radiodue del 15 febbraio 2021.


tante parole, il testo lungo


La storia è triste, tristissima, ma è una storia da conoscere. È una storia di disperazione, di indifferenza, di dolore, di morte. Dieci minuti di dura lettura.


La storia di Alì o Khobeib

17 settembre 2019
Cos’è un trauma? Un trauma è quella coperta rossa in cui Alì ha scelto di avvolgersi a bozzolo, prendendo le sembianze di un sacco umano.
Agli inizi di febbraio, era stato respinto dalla polizia croata e spogliato dai suoi abiti “caldi”, di scarpe e calzini, e poi costretto a ritornare a Kladusa (sul confine croato, luogo nevralgico della rotta balcanica) a piedi nudi, attraversando i terreni boscosi pieni di neve. Le sue dita si erano congelate.
Quando il 7 febbraio era arrivato a camp Bira di Bihac (nella parte nordoccidentale della Bosnia ed Erzegovina) le dita ormai erano nere, in necrosi. Era sabato, e fino al lunedì successivo non avrebbe ricevuto alcuna cura. La cancrena e il trauma psicologico sono avanzati inesorabilmente tanto che l’unica ipotesi, alla fine, era stata l’amputazione. L’avevo conosciuto Alì in precedenza, l’ho ritrovato nel container A3 del camp Bira di Bihac. Tramite una conoscenza comune, mi aveva inviato un messaggio disperato: “Voglio parlarti e raccontarti tutta la mia storia”. Ottengo i permessi per incontrarlo. Mi parla in italiano e francese.
Alì non si riconosce, è spogliato dalla sua stessa immagine. Era partito per un viaggio della speranza che si è frantumato nella necrosi che lo stava divorando. Aveva una vita, una storia, degli affetti lontani ma se avesse accettato la mutilazione, non avrebbe più avuto piedi per andare loro incontro. Rifiuta le cure, rifiuta l’amputazione, forse vuole morire. Forse non può sopportare la fine di ogni illusione e il dolore che darebbe a sua madre. Forse non vuole davvero morire, ma è ridotto a scarto umano, privo di dignità, e non lo può sopportare. Alì ha abitato il mondo con i suoi desideri, ma ora quei suoi piedi congelati che vanno in cancrena e che lui, chiuso nel suo involucro rifiuta di curare, sono come una emorragia che lo allaga nell’anima e nella mente. Il suo trauma è un ingorgo fatto di troppa violenza, impensabile per una psiche già provata da troppi traumi. Meglio morire, anzi no, meglio andare, mi dice: “dai, andiamo! Andiamo a Zagabria, prendo l’aereo dell’Alitalia e vado in Germania”, poi si chiude nella sua coperta della mezzaluna turca ad ascoltare i rumori sordi a cui si è consegnato.
Resto in contatto con lui attraverso un amico rifugiato, gli mando messaggi, non mi risponde ma so che mi aspetta. Lo rivedo nei mesi successivi, il mio tempo con lui è fatto di ascolto partecipe all’interno di quel container che sa di morte, di feci, di urina.
Rievoca la rivoluzione della primavera araba e il suo primo approdo in Italia nel 2011. Poi la ricerca di lavoro in Francia e Germania dove rimane per sei anni, fino al ritorno in Tunisia per ritrovare la famiglia d’origine. Ha parlato tanto, come mai prima d’allora, agli altri riserva mutismo e mugugni.  Conversa in italiano e in francese e ripete in una cantilena senza fine: “andiamo via da qui, portami a Zagabria”. Resisto ai miasmi, lo tengo per mano. Lui sa che io sono lì per lui e che sono la “testimone” della sua storia.
Un giorno mi giunge l’immagine di Alì dentro una carriola. Aveva osato un gesto di autonomia, subito represso, aggirandosi con la carrozzella all’interno dell’area A. Quell’immagine di Alì dai piedi in necrosi, buttato in una carriola, è scandalosa, oscena, fuori da ogni scena accettabile. Le scansioni del tempo che scorre indifferente, continuavano a riversarsi sui confini del suo essere ma anche sui nostri confini. Lo ritrovo a luglio nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Bihac. È in un letto di contenzione, legato mani e piedi dentro uno stanzone che è un deposito di letti, materassi e comodini di ferro.
Il colloquio è toccante. La sua parte sana è molto sofferente, si sente violentato, privato della dignità, chiede rispetto ma, afferma, trova derisione. Poi mi racconta la sua vita, mi parla di suo figlio, del desiderio di rivederlo. E qui sprofonda. È tenero come un bambino inerme, ma caparbio come tutti i bambini che credono nell’onnipotenza dei loro desideri.  È assalito dal pensiero ossessivo di ritornare in Germania e la sua mente, per difendersi dalla sofferenza, si aggrappa alla negazione della realtà. Immaginare di avere i piedi ancora sani, capaci di camminare, di andare, di volare verso il suo sogno, lo tiene in vita.
Nel rifiuto delle sue cure c’è tutto questo: allucinare il desiderio per non morire, lasciarsi morire per non vivere come uno scarto umano. Nella sua realtà diventata un incubo, il sogno gli salva la vita. Sarà questa sua parte folle, straordinaria, sognante che tra agosto e settembre lo porta a compiere l’impensabile. Dimesso dall’ospedale, rientra al camp Bira. I suoi piedi sono dei monconi, le parti necrotiche sono cadute da sé. (…)

11 ottobre 2019
(…) Nella tarda mattinata di lunedì 23 (settembre 2019), nello squallore brulicante dell’ingresso all’enorme capannone del campo Bira di Bihac, un’operatrice dell’IOM ci ha improvvisamente comunicato che Alì, come continueremo a chiamarlo (ovvero Khobeib), era morto il sabato precedente.
(Alì) Era scomparso da Bihac per riapparire a Sarajevo, dove era rimasto per alcuni giorni. Sappiamo che nella capitale della BIH una nota attivista della rotta balcanica, Nawal Soufì, si era occupata di lui ed era riuscita a farlo incontrare con la madre venuta dalla Tunisia. Da Sarajevo, dopo alcuni giorni, aveva chiesto aiuto a DRC per poter tornare a Bihac senza riuscire a dire dove si trovasse. Si è poi scoperto che era in uno squat assieme a degli algerini. E’ infine riapparso a Bihac, in condizioni aggravate di salute. Per scomparire di nuovo. In game. E’ stato infine raccolto svenuto in un bosco vicino al confine croato. Trasportato all’ospedale di Bihac, è morto nel reparto di chirurgia.
Non abbiamo più potuto vederlo. Abbiamo visto soltanto il suo cadavere.
Non avremmo mai immaginato di visitare un obitorio. Un luogo orribile non tanto e non solo perché deposito di cadaveri, ma per la penosa trascuratezza dei locali dal pavimento sporco, le porte delle celle arrugginite.
Da una cella frigorifera aperta, emergevano le folte chiome nere di due corpi avvolti in sacchi di plastica verde. Ad Alì, l’addetto aveva liberato il volto.
Non è stato un modo per salutare Alì. Un cadavere non si può salutare. I rituali funebri sono fatti per i vivi. Abbiamo però sentito l’esigenza di vedere il corpo di quest’uomo di 32 anni che da vivo, nella sua disperata vitalità di profugo anche dalla sua mente – lo avevamo definito un ‘profugo assoluto’ -, ci aveva coinvolto nella sua storia estrema.
(…) Da chi è stato ucciso Alì? Da tutti coloro che gestiscono la fase migratoria: l’ONU (UNHCR, IOM), l’UE, i responsabili dei governi dei singoli paesi europei, dalla Germania alla Croazia (che non è in Schengen e che vuole entrarci)… da tanti, da troppi … dai cittadini indifferenti… anche dall’incapacità di chi pur vorrebbe agire per cambiare in meglio il mondo…
Tanti colpevoli, nessun colpevole! È il metodo delle burocrazie, soprattutto delle burocrazie democratiche, che non hanno l’alibi di un capo su cui scaricare la responsabilità.
Avevamo incontrato Alì dapprima quando era chiuso nel container puzzolente del campo Bira. Poi quando, seduto sulla soglia, si guardava intorno, nello squallido spazio dell’immenso capannone. Infine, l’ultima volta l’abbiamo salutato in un letto di contenzione, legato mani e piedi, nel reparto di neuropsichiatria di Bihac. Sappiamo che ha vagato a lungo negli spazi balcanici, fra boschi e polizie. Il suo viaggio è finito in questa cella rugginosa, in un altro container. In quello del Bira, il suo sguardo vagava chi sa dove. Qui glielo hanno spento.
Il corpo di Alì è stato in seguito portato in Tunisia, dove è stato sepolto (anche grazie all’intervento di Nawal Soufi).

Lorena Fornasir


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