Bacheca, Parole al vento

Parole al vento, n. 8

Roma, 12 febbraio 2021


Alberi

Il numero del 12 febbraio 2021


Tema


Alla fine di ottobre 2018, sulle Dolomiti, ci fu una vera e propria strage di alberi. Senza alberi, come scrive Mario Rigoni Stern, su questa terra non ci sarebbe vita, nessuna vita. Cosa c’è di più legato alla vita dell’esplodere delle foglioline primaverili di un bosco di faggi o del rosseggiare autunnale delle foreste?


colonna sonora


Giorgio Gaber – La Libertà
Pinguini Tattici Nucleare – Jack il Melo Drammatico

proposte di Giulia T.


Ci vuole un fiore di Sergio Endrigo

proposta da Luciano C.


Svolgimento


pensieri



Miano Massimo: Nei nostri ricordi i loro sorrisi. Nei nostri cuori le loro parole. Nella morbida terra un albero, per tutti gli amici che non ci sono più.


Forse è improprio parlare dell’albero della vita per chi la vita l’ha persa! Come dire… è la vita!!! Vivo rimane il ricordo.
due foto…
la prima quella dell’albero di Franco.
Se non ricordo male era il punto dove ha scattato uno degli ultimi scatti… Poi perché, sulla sinistra, ci sono due persone che si abbracciano… è vita… affetto… amore.
La seconda quella di Nadia con lo sfondo dell’acquedotto e di un albero in attesa della fioritura primaverile.

Tonino B.


Mantenne la parola
Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo, e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno calcato sulla fronte.
Nostro padre si sporse dal davanzale.
– Quando sarai stanco di star lì cambierai idea! – gli gridò.
Non cambierò mai idea, – fece mio fratello, dal ramo.
Ti farò vedere io, appena scendi!
E io non scenderò più!
– E mantenne la parola.

Italo Calvino, Il barone rampante, Einaudi, 1957


Albero del pepe al parco di Tor Tre Teste – Pino F.

“Amo gli alberi. Sono come noi. Radici per terra e testa verso il cielo.”

Erri De Luca


L’isola è deserta

All’alba, nell’isola deserta, mi aggiro a lungo alla ricerca dell’albero al quale si è impiccato Alexander Langer. Anche le mie amiche, che condividono in questi giorni la mia casa, hanno provato dolore, e la nostra è stata una cena di lutto. Tutte e tre abbiamo perso compagni di vita e di lotta a noi più vicini di Alexander; per una sorta di pudore abbiamo taciuto, ché il nostro comune compianto per Alexander ci ha avvicinate al destino dei nostri amici nel regno dei morti.
Mentre loro all’alba sono assopite, più saggiamente di me, io cerco quell’albero.
L’isola è deserta – io stessa lo sono.
Un deserto diverso da quello in cui varie ore prima gli isolani, i turisti, hanno letto fra le varie notizie di cronaca sul giornale quel fatto. Perché per loro Alexander Langer non è stato nessuno, un tale di cui si legge. Per loro ha predicato invano nel deserto. Non così per noi.
Cerco un melo, un arancio, un melograno – alberi ai cui frutti l’umanità, felice o dolente, è sempre ricorsa per simboleggiare il proprio destino. Per fortuna sull’isola non ci sono nemmeno alberi di Giuda né alberi, fruttuosi o infruttuosi, di fico.
Ho misurato anche in diversi alberi altezza e consistenza dei rami.
Finché, seduta di fronte al mare, nemmeno solcato in quest’alba da alberi di nave, penso un pensiero banale: si è impiccato all’albero della vita e della morte. E ricordo le mie ultime letture, Il principio speranza di Ernst Bloch: che quando si muore, muore in noi soltanto quanto non è stato utopia.
Agli altri che verranno Alexander ha affidato il suo piccolo bagaglio di utopia: racchiuso forse soltanto in un piccolo zaino, nella tasca di una giacca a vento, in una scatoletta di severi e sobri appunti, come è sempre stato nel suo stile di abbigliamento e di vita. Tutto depositato ai piedi del suo albero.

Fabrizia Ramondino, L’isola riflessa, 1998, Einaudi, Torino, pp. 57-58


Vai a Spigolando fra “Le otto montagne”
numero 13 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk – febbraio 2021

Marina M.


laurus, ornus,
i nomi degli alberi in latino sono nomi di genere femminile.
e poi Laura Ornella…. ne portano in giro il rigoglio, la giovane verzura, il tronco rugoso e le cicatrici di cuori trafitti dalle frecce innamorate, più tardi, fino alla vecchiaia, ombrosa….
Laura M.


Da bambino volevo guarire i ciliegi / Quando rossi di frutti li credevo feriti
da “Un Medico” (1971) di Fabrizio De Andrè

Da bambina, durante i viaggi in macchina con babbo, era la mia canzone preferita.:))
proposte di Giulia T.


Piantare alberi: una vita che prosegue dopo di noi. Un segno del nostro passaggio nella vita.
Con i miei fratelli abbiamo portato l’ultimo abete che mia madre aveva addobbato per Natale piantandolo a Velletri.
Ho portato alla Valle di Castel Madama un tiglio.
Vorrei piantare un ulivo a Pantelleria.
Alberi da frutto, alberi che danno ombra, alberi da abbracciare, tante mani che si uniscono, quando potremo tornare a farlo.
Caterina B.


arguzie


Lui vuole diventare un albero! – Giulia T.

tante parole, il testo lungo


Una bella giornata di sole, un bel faggio sotto cui sedersi e sette minuti per leggere le parole di un grande uomo.


Introduzione ad Arboreto salvatico

È grande il popolo degli alberi; sparso dalle paludi alle vette, dai climi torridi a quelli gelidi; innumerevoli alberi sulla terra in migliaia di specie. In Italia, secondo recenti rilevamenti, ci sono venti miliardi di alberi nelle zone boschive; poi ci sono gli alberi da giardino, quelli delle campagne, dei cigli stradali, delle città. Se loro non ci fossero non ci sarebbe vita. Nessuna vita. E che pianeta sarebbe il nostro? Morto, arido come la Luna. Come forse un tempo ritornerà, come canta il Gallo silvestre di Leopardi? «… ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empiranno lo spazio immenso. Cosi questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi».
Anche gli gnomi dentro il buio della Grande Montagna cantano:
Sette volte bosco, sette volte prato, poi tutto ritornerà com’era stato.
Ma intanto i nostri alberi sono qui, dal Paleozoico; quando gli uomini comparvero sulla terra loro c’erano da milioni di anni per prepararci la coabitazione.
Oggi, malgrado il grande progresso tecnologico e scientifico e la curiosità che ci spinge a conoscere sempre di più, lo studio della vita vegetale riserva scoperte che ancora ci stupiscono. In un recente congresso della Società Europea Pro Silva alcuni studiosi hanno relazionato intorno a certe osservazioni condotte su gruppi di alberi consociati e hanno constatato che questi si scambiano elementi vitali attraverso le radici per meglio sopportare le traversie della loro esistenza e che insieme uniscono i rami per meglio reggere le inclemenze delle perturbazioni climatiche. Insomma dall’albero singolo si passa al gruppo; dal gruppo al bosco: dalla vita breve – da qualche decennio a qualche secolo – dell’albero alla millenaria della foresta.
Quante cose ancora non sappiamo, e tante ne abbiamo perduto progredendo. Con il popolo degli alberi i nostri antenati avevano un rapporto più diretto ma anche più conoscitivo e rispettoso in forza di religione e per sensibilità. Quando gli uomini vivevano dentro la natura, gli alberi erano un tramite di comunicazione della terra con il cielo e del cielo con la terra.

M. R. S.
Asiago, 9 luglio 1996.

(…) Cechov, nel 1888, scriveva: «Chi conosce la scienza sente che un pezzo di musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l’uno e l’altro sono creati da leggi egualmente logiche e semplici». Dieci anni dopo a un amico che va a trovarlo in Crimea dice: «Qui ogni albero l’ho piantato io e mi sono cari. Ma ciò che importa non è questo, è il fatto che prima che venissi io qui non c’era che un terreno incolto e fossi pieni di pietrame e cardi selvatici. Ho trasformato quest’angolo perduto in un luogo bello e civile. Lo sa? Fra tre, quattrocento anni, tutta la terra si trasformerà in un bosco fiorito e la vita sarà meravigliosamente leggera e facile…»
Quando vagabondo per le mie montagne boscose ripenso a quanto diceva Anton Cechov e lo ripeto anche agli amici che vengono quassù a trovarmi. Ma a volte provo anche sfiducia se mi capita di constatare quanto poco gli uomini si occupino dei problemi degli alberi. E si che da tempo studiosi e tecnici vanno scrivendo dei pericoli che li minacciano, e ai pochissimi che li ascoltano o che si interessano corrispondono i troppi che si accorgono degli alberi solo quando, presi dalla calura estiva, cercano la loro ombra per posteggiare l’automobile.
Se incontro un albero sradicato dal vento, o schiantato dalla neve, o roso dal ghiro, o morso dal cervo provo dispiacere, ma quando vedo una corteccia incisa da un barbaro coltello o un albero tagliato da una scure di frodo provo amarezza e rabbia perché se coltivare boschi è segno di civiltà, danneggiarli e distruggerli è inciviltà e regresso.
Un giorno ritornando dalla passeggiata mattutina e passando vicino a una contrada, con disgusto il mio sguardo era andato a posarsi su due frassini e un sorbo ai quali qualche violento imbecille aveva spezzato le cime. Erano stati posti a dimora in un’aiuola erbosa nell’area comune dove un tempo si raccoglieva l’acqua piovana per abbeverare il bestiame e in quella primavera avevano ripreso a vegetare con vigore e bellezza. Ora i tre cimali pendevano spezzati, con le foglie appena sbocciate che appassivano e la linfa che gemeva dalle ferite mortali. Ma chi poteva essere stato? Non certo i ragazzi che conosco: lassù non arriverebbero, e poi i tronchi sono ancora troppo esili per arrampicarli. Forse era stato l’emigrante ritornato dall’Australia e che ogni tanto si ubriaca? 0 quei giovani dall’automobile rossa che quasi ogni sera vanno a fumare alla curva del bosco?
Ero amareggiato e andando verso casa pensavo a un articolo letto su un giornale e che aveva per titolo: Uccise un albero, all’ergastolo. Era per una quercia secolare sacra a certe tribù indiane ma anche nota come «La quercia del trattato di Austin» perché alla sua ombra era stato firmato l’accordo per l’annessione del Texas agli Stati Uniti e per gli americani era simbolo di storia concreta e viva. Forse l’ergastolo richiesto per un uomo colpevole di aver ferito gravemente un albero storico era una condanna troppo severa, ma dieci anni di lavori silvocolturali, pensavo, ci starebbero bene. Anticamente, per chi profanava un bosco sacro in certi casi c’era la pena di morte perché dagli alberi erano nati gli dèi e gli uomini…

Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 

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