Roma, 19 febbraio 2021
Tema
Quando si fa un trekk sulle Alpi, sovente si incontrano e ci si ferma in piccoli agglomerati di montagna. La sera dopo una robusta cena, il camminatore che si è fatto ore e ore di marcia durante il giorno, che fa, va a dormire a pancia piena senza sgranchirsi un po’ e senza digerire tutto quel ben di Dio che si è ingurgitato?
È così che gli escursionisti si mettono a bighellonare per le stradine del borgo finendo per arrivare, inevitabilmente, allo spiazzo curato e lindo della chiesina con annesso camposanto. Dal fondo della truppa si alza una voce: “Alla fine sempre lì si va a finire!”
colonna sonora
Dormono sulla collina di Fabrizio De Andrè,
Album: Non al denaro non all’amore né al cielo, 1971
proposta da Massimo M.
Una giornata uggiosa,
Testi di Mogol, musiche di Lucio Battisti, 1980
proposta da Luca A.
Pet Sematary, Ramones Album Brain Drain, 1989
proposta da Pino F: una cosa sobria!
Svolgimento
pensieri
1993 treno per Berlino e destinazione finale ex Berlino est (ancora molto est). Tre settimane con il servizio civile internazionale, progetto “ripulire e risistemare un cimitero ebraico” una volta lì il progetto era cambiato e abbiamo pulito e risistemato i dintorni della chiesa russa di Potsdam. Il cimitero non c’è l’hanno fatto visitare ma in un pomeriggio libero passeggiando senza meta siamo arrivati davanti al cimitero! Funziona proprio così lo confermo!
Montanari Francesca
…forse quando le cose si osservano da lontano appaiono più chiare, dite.
e siccome i luoghi dove riposano le persone per noi importanti (conosciute o meno, nella nostra vita) ci attraggono, ci siamo trovati a Racalmuto, una mattina d’estate, nel cimitero semplice di paese, dove è sepolto Leonardo Sciascia, a leggere le parole incise sulla pietra chiara della sua tomba….”Ce ne ricorderemo di questo pianeta”
Laura Mittarelli
“Il cimitero del paese, con le sue tombe rivolte verso il mare, indifferente al frangersi sonoro delle onde, si trova a metà strada fra il paese e l’Albergo. Un paesaggio maestoso per umili, definitive dimore. A Floreana è sempre piaciuto avventurarsi nei cimiteri dei posti che visita, convinta che vi si trovino le chiavi per capire i vivi. Si dirige così a questo suo primo appuntamento deviando dalla strada per l’albergo. Per Floreana, da quando abita lì, il pomeriggio comincia tra le quattro e mezza e le cinque. Sono le quattro, c’è ancora tempo.
Alcune lapidi sono adagiate a terra, altre si ergono senza protervia. Non c’è ombra di marmo, ci sono solo lapidi di pietra o di legno grezzo. Avvolgendosi stretta nella sua mantella di lana, Floreana passeggia tra quei nomi sconosciuti con le loro date remote o recenti e i fiori appassiti. I piccoli cimiteri di paese hanno un fascino speciale, pensa, e sceglie un piccolo dosso di sabbia circondato da erba alta per sedersi ad ammirare il mare. Da quel luogo ideale, fissa il profilo del sole.”
Marcela Serrano, L’albergo delle donne tristi, Feltrinelli
Il cimitero di Bonifacio, in Corsica, il più bello e rasserenante che io abbia visitato, con i suoi affacci sul mare e l’aspetto quasi da piccolo villaggio…
proposta di Luca
Cimitero marino di Bonifacio
https://goo.gl/maps/JDSygX3YhL47xrb3A
Qui si piange meglio
Ai primi di novembre (potrei controllare sui giornali del tempo il giorno esatto), la statua della Giustizia, che troneggia nel lunotto del Palazzaccio, verso il fiume, perdette il suo principale attributo: la bilancia. Era di ferro e di travertino. Questa bilancia precipitò, mancando di poco un avvocato, i cocci rimasero sulla scalinata, ma neanche questo segno destò eccessive preoccupazioni.(…)
Cominciavano i festeggiamenti patriottici, e prima c’erano state le affluenze al Verano, per i defunti. Infine, un gran da fare. Il 4 i fascisti sfilarono davanti al re e nella serata molti riprendevano i treni del ritorno a casa. Non c’era altro da aggiungere.
La mattina del 5 entrai finalmente in collegio, anche la mia marcia era finita. Conservavo di quei giorni un senso di umidità, di sconforto, quel poco di Roma che avevo visto m’era sembrato di una smisurata tristezza, che ora le mura del collegio chiarivano: la tristezza del barocchetto, dei selciati sconnessi, delle continue lapidi papaline, di una folla spenta, di uno spirito cinico che non capivo.
Davanti al cimitero del Verano avevo visto una trattoria con questa enorme insegna: «Qui si piange meglio». Era una Roma brutalmente chiara, materna quanto si vuole, e disponibile, che si preparava già a diventare la prudente amante dell’usurpatore. Il quale l’avrebbe ripagata distruggendo i Borghi, la via Alessandrina, creando orribili borgate, col popolo strappato dalle vecchie strade, e condannato a una vita d’inferno che ancora dura.
Ennio Flaiano, la solitudine del satiro, Adelphi
I cimiteri possono essere piccoli o monumentali, raccolti, nascosti, conservare i resti di emeriti sconosciuti o quelli di persone famose. Possono accogliere cristiani o musulmani, ebrei o cattolici, ma quando ci entriamo ci sembra di poter parlare con chi è lì sepolto, di proseguire un dialogo interrotto o di sentire accendere il nostro animo da egregie cose (come sosteneva Foscolo). Forse sono il luogo nel quale più che in ogni altro luogo cerchiamo quel legame che non si spezza mai tra noi vivi ed i nostri cari. Sarà per questo che amo i cimiteri piccoli, raccolti come quello di Scauri Siculo (Pantelleria), che è a strapiombo sul mare e dove sono sepolti mio padre, mio nonno e alcuni cari amici. Di fronte a loro l’orizzonte sul mare che non ha confini, come il rapporto tra la vita e la morte.
Sarà per questo che in Sicilia, un tempo, i morti tornavano a trovare i vivi il 2 novembre e portavano doni (non la befana), ma loro: i nonni, gli zii, i fratelli, le mogli o le sorelle e nessun bambino provava disagio o paura.
Caterina B.
In Messico il 2 novembre i cimiteri si vestono di festa. È il giorno dei morti, il giorno nel quale loro tornano dall’aldilà a visitare i propri cari. È una grande festa!
Adriana H.
arguzie
Tanti anni fa il Napoli vinse lo scudetto e al cimitero apparve sul muro la scritta “Che vi siete perso!”. E fulminea venne la replica “E chi ve l’ha detto?”
Gualtiero T.
Bei posti i cimiteri. Meglio entrarci da vivi.
Laura B.
@tomdimaria3 – 30 gen
I dipendenti del #cimitero di #castelvetrano, essendo scappato il morto, sono andati a cercarlo al mercato, in pellicceria ed al supermercato. I #Carabinieri, birichini, li hanno denunciati… È proprio vero, #uncestichiumunnu!!!
‘A livella, scritta da Totò, 1964
proposta da Tonino B.
@antonella__7 – 14 gen
A quelli che nei #rapporti vogliono #pace e #tranquillità, #consiglio il #cimitero!
tante parole, il testo lungo
Un quarto d’ora. Per leggere il testo che trovate qui sotto avete bisogno di una quindicina di minuti. Forse è troppo lungo, ma la storia di Incoronata e di Miroslaw scritta da Alessandro Leogrande merita di essere conosciuta, come merita di essere letto un intellettuale come Leogrande che abbiamo perso troppo presto.
Incoronata e il ragazzo ignoto
Il ragazzo è morto, in un modo o nell’altro è morto, e questo le basta per andare a trovarlo. Per passare delle ore accanto alla sua tomba, in silenzio, accatezzare il marmo, risistemare i fiori e le zolle, incrociare le dita nodose, fissare la terra intorno. Come se la sofferenza, tutta la sofferenza dimenticata, non raccontata, si fosse concentrata in quel punto preciso del camposanto, poco fuori dal paese, formando una miscela densa e pronta a esplodere. Incoronata avverte la pressione dei torti senza trovare le parole per esprimerla. E allora resta immobile, curva nel solito scialle, a guardare il marmo. II ragazzo è lì, e lei, solo lei, se ne prende cura.
Lei sa che il ragazzo non ha colpe, se non quelle dettate all’ingenuità dei forestieri.
Tutto ha avuto inizio pochi mesi prima. Incoronata Di Nunno ha 75 anni e per tutta la vita ha fatto la bracciante agricola nei campi intorno a Orta Nova, nel cuore del Tavoliere delle Puglie. Nel mezzo di una pianura chiamata così perché è piatta come il mare: una distesa, a seconda delle stagioni, gialla, marrone, verde, arsa, florida. Lì, in quella terra, è cresciuta e invecchiata insieme a decine di migliaia di altri braccianti. Come suo padre, come sua madre, come tutta la sua famiglia.
ll sole e la fatica le hanno cotto e affilato il viso. I segni le sono rimasti, anche se sono anni ormai che Incoronata non va più a lavorare nei campi. Il giorno sta a casa. Cucina, fa il bucato, guarda la televisione, telefona ai figli che sono immigrati al nord in cerca di lavoro. Ma prima di fare tutte queste cose va al cimitero. Che sia estate o inverno, raccoglie i capelli bianchi nel foulard, secondo un gesto ripetuto di enerazione in generazione, e percorre la strada dritta che porta al camposanto, poco più in là delle ultime case di Orta Nova. Va a trovare il marito, che sfidando la fortuna ha provato a emigrare in Germania, ma gli è andata male. E’ tornato al paese poco dopo, ha lavorato come lei per trentaquarant’anni
nei campi, ed è morto per le fatiche accumulate nel tempo. Incoronata, senza di lui, si sente una sopravvissuta di un’epoca che non c’è più. Lo va a trovare ogni giorno, gli porta i girasoli, le margherite, i fiori di campo e aspetta che il tempo passi, che le stagioni scorrano via.
Ma un giorno il flusso ordinario delle cose si spezza. Deviando di qualche viottolo dal suo percorso abituale tra i morti, Incoronata si accorge che in un angolo brullo, quello delle tombe più povere, sotto la nuda terra, è sepolto un uomo di cui nessuno sa niente. A segnalare che lì sotto c’era una bara era stata piantata una croce di ferro. Con un pennarello indelebile, qualcno, probabilmente il custode, aveva scritto sopra a stampatello SCONOSCIUTO. Nient’altro, nessuna ulteriore indicazione. Un nome, un cognome, una data. Non un fiore o una pianta a ingentilire quella croce.
Nel paese la storia un po’ la si sapeva, la si mormorava nei bar, sulle panchine della piazza centrale, ma Incoronata, ignara di tutto, non ne aveva mai sentito parlare. Pochi conoscenti, i figli fuori casa, molta televisione… le storie e le dicerie del paese non le interessavano più da tempo ormai.
Così va a parlare con il custode, lo interroga e apprende che si tratta di un uomo trovato morto per strada lì vicino, nell’agro di Orta Nova. Era un ragazzo, le dice il custode, è stato trovato senza testa, «cioè la testa era proprio maciullata». Pare che qualcuno l’abbia investito con un camion… Per un po’ di tempo era stato tenuto in una cella frigorifera all’ospedale del paese, ma era stato impossibile accertarne l’identità, dargli un volto tramite le testimonianze o le foto segnaletiche della polizia, anche quelle che ritraggono gli uomini e le donne scomparse. Così, dopo un po’, non reclamato da nessuno, quel corpo martoriato era stato sepolto. Si sa solo che doveva essere straniero, e che era lì per lavorare nei campi.
A sentire la storia Incoronata Di Nunno si impietosisce.
Prende l’abitudine di fermarsi quasi ogni mattina davanti alla croce di ferro. Dapprima per pochi minuti, poi sempre più a lungo. Inizia a portargli i fiori. Ogni giorno parte da casa con l’idea di dividere il solito mazzo tra il marito e il ragazzo sconosciuto, sepolto in quell’angolo brullo.
Passano i giorni, arriva la primavera. Senza riflettere più di tanto, Incoronata decide di fare ciò che nessuno, sino ad allora, aveva pensato: far costruire una tomba. Dare una sepoltura «da cristiani» a chi faceva un lavoro simile a quello che aveva fatto lei molti anni prima.
Impiega i suoi magri risparmi, chiama un marmista e un muratore. Fa costruire un piccolo mausoleo quadrangolare di marmo bianco. Sopra vi fa scrivere, con lettere bronzee disposte su due righe “IGNOTO m. 20-9-2004” e, subito sotto, la preghiera suggerita dal parroco:
SIA BENEDETTO DIO/PADRE DI TUTTI
Sopra la tomba poggia, senza fissarla, una immaginetta della Madonna e intorno inizia a disporre, secondo un ordine geometrico, piante grasse e fiori. Li mette in vasi marroni, separandoli con cura dalla sterpaglia che cresce intorno.
Poco alla volta inizia a realizzare che ciò che l’ha spinta a costruire la tomba non è solo un’indistinta forma di pietà, né l’empatia per il lavoro nei campi. Incoronata è ossessionata dal fatto che si possa morire senza avere un volto, e senza essere pianti. La morte senza lacrime, questo è inconcepibile.
Quando una giornalista va a intervistarla, le confida che, per lei,la cosa più tremenda è che una madre o una sorella o una moglie da anni stanno cercando il ragazzo. Lo stanno cercando sicuramente, le dice Incoronata, ma non possono trovarlo. Non sanno che sta a Orta Nova.
In paese, tutti iniziano a chiamate il ragazzo morto con
il nome indicato sulla lapide, IGNOTO, più gentile del sinonimo
«sconosciuto». Per tutti, quando lo evocano nei loro discorsi, il ragazzo senza volto diventa Ignoto, quasi fosse un nome proprio.
Poi all’improvviso, a un anno esatto dalla costruzione della tomba, sbuca fuori una foto. Alcuni ragazzi che sostengono di aver vissuto insieme a Ignoto in un casolare, e di aver lavorato insieme a lui alla raccolta dei pomodori, vanno dal maresciallo e in via confidenziale gli fanno vedere quell’unico scatto. È allora che si è capito che era polacco. Si erano fotografati nel casolare in cui dormivano, fra i letti a castello, i materassi umidi, i pochi vestiti accatastati qua e là e i muri scrostati, come fossero una squadra di calcio. In un angolo, con la barbetta, il viso smunto e sottile, gli occhi di un Cristo predestinato, c’era lgnoto. «Si chiamava Miroslaw e veniva dalla cittadina di Tomaszow Mazowiecki, vicino Lodz» dicono gli altri stagionali «ma non sappiamo nient’altro».
Non lo conoscevano più di tanto, lavoravano insieme solo da pochi giorni, ed erano stati spediti dai caporali a dormire nello stesso stanzone diroccato fuori dal paese, in aperta campagna. In pochi giorni, in quello stato di forte annientamento della personalità, di totale anonimato cui conduce il lavoro interminabile nei campi, non era stato possibile apprendere null’altro che il nome di battesimo e la regione di provenienza. Questo dicono gli altri stagionali al maresciallo e, per paura di subire una ritorsione da parte dei caporali, vogliono che sia mantenuto il più stretto riserbo sulla loro identità.
Con quei pochi dati e con la foto del casolare, la polizia italiana si rivolge alla polizia polacca, ma questa non è in grado di fornire alcuna indicazione. Nessuno ha denunciato la sua scomparsa, non un familiare, non un amico, nessuno sa niente di lui. Nessuno vuole sapere niente di lui. Una foto che lo ritraesse non era mai stata inserita nel registro delle persone scomparse. Mai. Così Miroslaw rimane Ignoto, e IGNOTO resta scritto sulla sua tomba, benché in paese comincino ora a chiamarlo «Il Polacco», aggrappandosi alla
sua nazionalità come fosse uno spiraglio utile alla soluzione del mistero.
Quanto a Incoronata, sapere il nome e il paese di provenienza della vittima non cambia molto. In fondo ha solo avuto la certezza, la prova ultima, di quello che ha sempre intimamente saputo: il ragazzo era uno straniero venuto qui in cerca di lavoro, così come anni prima suo marito e in anni più recenti i suoi figli sono stati spinti a partire per cercare, a loro volta, lavoro. Ognuno ha la sua Germania da raggiungere, pensa Incoronata. Ognuno ha il suo Nord e il suo Sud. E questo le basta per spiegare il movimento che
regola la Storia, le sue correnti sotterranee, il dipanarsi delle ingiustizie. Ma poi ci sono anche le zone d’ombra. Le omissioni.
Le cose che apparentemente sembrano inspiegabili. L’incidente in cui «Il Polacco» ha trovato la morte, qualcuno comincia a dire, forse non è stato un vero incidente. Non almeno nel significato di assoluta casualità che in genere si dà alla parola. Quando sente queste voci, Incoronata rimane in silenzio. Le incamera nella mente, come si raccolgono le foto in un album.
Ai carabinieri le dinamiche dell’incidente sono parse subito un po’ strane. La testa era maciullata, segno che la ruota di un furgone o, molto più probabilmente di un camion, le era passata sopra. Non c’erano però, sul posto del ritrovamento, le prove dello scontro. Né i segni di una brusca frenata, né i resti di un fanale rotto o dei vetri, dei frammenti. E soprattutto il corpo non era stato sbalzato in seguito a quello che doveva essere stato un impatto molto violento. Miroslaw era morto, se di semplice incidente si era trattato, in un modo piuttosto singolare: steso in mezzo alla strada, fermo, supino, in attesa che un camion gli passasse sopra. E il camion, stranamente, gli aveva schiacciato solo la testa.
Anche ipotizzando che Miroslaw fosse già steso in mezzo alla strada, di notte, al buio, perché colto da malore o «perché ubriaco» (come si dice sempre, nel Tavoliere, quando muore un bracciante straniero) è difficile immaginare un investimento del genere. I carabinieri, salvo esprimere forti perplessità, non hanno potuto dire altro, ipotizzare altro, supporre altro, ma il dubbio di una messa in scena, di una macabra amputazione che cancellasse intenzionalmente le prove (il primo degli indizi, il volto)
ha preso sempre più corpo.
Come è deceduto allora «Il Polacco»? È stato forse ucciso perché aveva litigato con i suoi caporali? Perché aveva commesso uno sgarro? Perché aveva preteso di essere pagato quando questi si erano rifiutati, come spesso capita, di farlo?
È stato ucciso perché magari aveva cercato di scappare da una situazione intollerabile, dai tanti «campi di lavoro» disseminati nelle campagne pugliesi? Come, allora, come?
Il silenzio che avvolge la morte di Miroslaw, il polacco ignoto, non è inusuale nel Tavoliere. Tante morti che non appaiono a prima vista «naturali» , sono archiviate proprio come tali o, al massimo, come incidenti fortuiti. Ma il sospetto che dietro quei decessi si celi dell’altro, che siano la massima esplosione di una tensione latente, quella nata dai rapporti disumani tra un nuovo caporalato e un nuovo bracciantato, è molto forte. Oltre il sospetto, però, oltre l’intuizione, non sempre si è in grado di andare. Nonostante le denunce presentate, le indagini dei carabinieri, le inchieste della Direzione distrettuale antimafia, il velo che cinge l’oscura matassa della violenza rurale solo di rado viene squarciato. Spesso si incontrano incredibili reticenze, legate per lo più alla paura. Altre volte, come nel caso dei ragazzi che avevano diviso per pochi giorni il casolare con Miroslaw, alla paura si aggiunge l’incapacità di fornire dati precisi, quella particolare oscurità che è figlia della solitudine, dell’alienazione. Tanti casi si sono arenati in questo modo. Eppure c’è anche un’altra verità, non giudiziaria,
non poliziesca.
Incoronata lo sa, senza averne le prove. Lo sa. Il sospetto che l’abbiano ucciso e che siano poi passati sopra con la ruota del camion, tranciandogli la testa, per lasciar ipotizzare un incidente e allo stesso tempo per sfigurarlo, è difficile da fugare. Quella morte – si convince sfogliando l’album dei suoi ricordi – è stata un assassinio, uno dei tanti delitti nascosti, consumati nel silenzio, che sono avvenuti nella sua terra. «Come cani» le aveva detto il custode un giorno che era andata al cimitero, come tante altre volte, a portare i fiori. Si lavora come cani, si muore come cani.
Sono arrivato al cimitero di Orta Nova alle tre di pomeriggio
di una calda giornata di giugno. Il sole era alto e batteva forte su tutto quanto non trovasse riparo all’ombra.
Il termometro segnava 40 gradi, tutto era immerso nella luce: i campi di grano e pomodoro intorno, i tetti del paese in lontananza. All’interno del cimitero dominava il bianco (bianche le cappelle, i viottoli, le lapidi, i loculi che si alzavano sulle pareti laterali) così come mi erano apparse di un bianco sfavillante, puro, latteo le mura esterne che si ergono direttamente dal giallo scuro della terra.
La storia di Incoronata mi è stata raccontata dal custode.
Un uomo molto robusto, dalla barba crespa e i capelli arruffati, che sudava copiosamente. Avrei voluto incontrare l’anziana bracciante, ma si era rotta una gamba poco tempo prima, cadendo malamente. Al cimitero non veniva da almeno una settimana.
La tomba del “Polacco» sorgeva in un angolo brullo. Sul marmo bianco erano disposte in fila alcune piante, i fiori erano ancora freschi. Al suo fianco, sotto terra, era seppellito un altro polacco, ma a differenza di Ignoto – come mi ha poi confermato il custode – la sua identità era stata accertata.
Anche lui era un bracciante, ma, a differenza del connazionale
sepolto accanto a lui, non era stato dimenticato dai parenti. «Vengono quaggiù fin dalla Polonia.»
Guardando la tomba quadrangolare fatta costruire da Incoronata, pulita e accudita regolarmente, quasi fosse una rocca che fronteggia l’incuria che la circonda, ho pensato che non sarebbe mai diventato un monumento alla memoria.
Uno di quei monumenti ufficiali, pubblicamente riconosciuti. Sarà visitato solo da pochissime persone nei prossimi vent’anni, prima che, secondo le disposizioni di legge, le ossa vengano riesumate e messe altrove. Allora scomparirà per sempre e lascerà il terreno ad altri morti.
Molto probabilmente nessuno dei suoi familiari, ammesso che Miroslaw ne avesse, saprà mai che è stato sepolto in questo angolo di Puglia. Eppure, in tutta la sua fragilità, questa tomba è un sacrario informale dei caduti nei campi. Non di quelli uccisi negli anni Dieci o all’inizio degli anni Venti del Novecento, nel corso di cruentissime lotte bracciantili. Non dei caduti in periodi successivi ma sempre lontani. È il sacrario degli ultimi caduti. I morti dell’ultima guerra dei campi. Arruolati all’estero e venuti
a morire qui.
Che la morte li abbia colti in prima linea o nelle retrovie, ha poca importanza stabilirlo. Così come ha poca importanza evincere, nel dettaglio, se siano morti per i colpi di un bastone o per le ferite di un coltello, asfissiati o carbonizzati, schiacciati da un tir o colti da un infarto, annegati in un vascone per la raccolta dell’acqua o falciati sul ciglio di una strada. Se siano stati ammazzati all’istante, uccisi lentamente o «suicidati»… Tali differenze costituiscono solo diverse gradazioni della stessa mattanza. Non importa la modalità, ma il fatto in sé. Quel fatto di cui Incoronata ha colto perfettamente la gravità quando ha deciso di costruire con i propri soldi la tomba simbolo di tutti i corpi lasciati insepolti: questi ragazzi sono morti nella speranza di racimolare un po’ di denaro raccogliendo pomodori, pulendo le vigne dalle erbacce, strappando frutti alla terra.
Sono morti qui, in totale solitudine. E molti, proprio come Miroslaw, «Il Polacco» di cui nessuno sa dire niente, sono rimasti IGNOTI.
Alessandro Leogrande, Uomini e caporali, 2016, Feltrinelli