Biografia
Nadia è nata il 16 maggio del 1954 a Roma.
Per i primi nove anni della sua vita ha abitato nel quartiere San Giovanni a Via Vetulonia, poi i suoi genitori, papà ferroviere e mamma casalinga, hanno comprato una casa a Centocelle e così ha frequentato gli ultimi anni delle elementari, le medie e le scuole superiori in questo quartiere. Io l’ho conosciuta in seconda media, classe esclusivamente femminile, era l’ottobre del 1966; la scuola era la Giovanni Verga, le scuole bianche, per quelli di Centocelle che continuano a chiamarle così, anche se non sono più bianche da decenni. Praticamente stavamo più o meno uscendo dall’infanzia, senza rimpianti e quasi senza fretta, ma come un passaggio naturale. La condizione economica della sua famiglia era sicuramente migliore della mia, ma vivevamo già nel periodo delle grandi trasformazioni sociali, aveva appena iniziato a funzionare quell’ascensore sociale che avrebbe portato molti di noi, anche provenienti da famiglie proletarie, a cercare un riscatto sociale per sé, ma soprattutto per le proprie famiglie, attraverso lo studio. Si portavano ancora, però, degli orribili grembiuli neri, con colletto bianco.
Ciò che più contraddistingueva Nadia era la sua aria da brava ragazza, vestita (sempre sotto il grembiule) con semplice accuratezza, piccolina, un po’ chiacchierina con le sue amiche del cuore, in particolare con Giuliana, andava bene a scuola, non era la migliore della classe, ma si trovava nel gruppo di quelle che andavano bene, più che bene. Sapeva scrivere in un italiano corretto, capacità che a me mancava. Quanto si chiacchierava tra noi! Soprattutto nell’ora di applicazioni tecniche, mentre si cuciva, ricamava, lavorava a maglia (tutti lavori femminili, ovviamente), non smettevamo mai di confidarci i nostri primi grandi segreti, il reggiseno, le calze lunghe (ma giravano ancora i reggicalze, che scocciatura!), i sogni, le paure, un po’ di tutto, insomma. Nadia ed io, però, in quel primo anno, non abbiamo cominciato a confidarci subito chissà cosa. Io stavo costruendo il mio gruppetto di riferimento, ero arrivata nella capitale da pochi mesi e cercavo ancora i primi contatti, nuove amicizie, lei aveva già il suo circolo di amiche. Io ero affascinata dalle storie che raccontava Patrizia che compensava la sua mancanza di bellezza con una fantasia veramente fervida, capace di costruire storie d’amore migliori di quelle dei romanzetti rosa. Nadia era (o così a me sembrava) più posata, più pragmatica. Solo la sua chioma piena di ricci mai domati poteva, allora, far presagire qualcosa di ciò che da quel guscio sarebbe venuto fuori con gli anni. Nessuna di noi, tuttavia, era chiusa nel suo circoletto. Raramente, allora, tornavamo insieme a casa: facevamo strade diverse. Abbiamo cominciato a farlo regolarmente soltanto durante le scuole superiori, anche se non frequentavamo più la stessa classe, solo la scuola era la stessa, l’Istituto Tecnico Commerciale Sandro Botticelli, e lo è stata per cinque anni, tutti i giorni del calendario scolastico.
Tutte le mattine, per l’andata a scuola partivamo insieme e, ogni volta che il nostro orario scolastico d’uscita coincideva, tornavamo insieme e a quel punto sceglievamo se fermarci all’angolo tra Via delle Palme e Via dei Castani o a quello tra Via dei Gelsi e Via dei Castani e lì mettevamo le nostre radici. Mia madre mi ha chiesto per anni come facessi a metterci solo tre minuti all’andata e ben un’ora e mezza al ritorno per fare lo stesso tragitto. Anche all’andata, certo, andavamo insieme, ma avevamo fretta, soprattutto nel periodo in cui facevamo una sosta nella parrocchia di Sant’Ireneo, per una breve preghiera mattutina, eravamo in tre, quattro. Anche per questo entravamo sempre tardi a scuola e allora c’era una sorta di registro nero sul quale il segretario scriveva quanti ritardi facevamo. Io, però, non li ho mai contati. Le mie professoresse attendevano con calma che io bussassi alla porta chiusa dell’aula e mi invitavano ad entrare. Non so cosa dicessero a Nadia.
È proprio su quelle lunghissime chiacchierate e su alcune scelte fatte in quegli anni che si è cementata la nostra amicizia. Abbiamo iniziato a frequentare la scuola superiore nel 1968, l’anno dell’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy, delle grandi contestazioni e già negli ultimi mesi delle medie ci chiedevamo cosa accadesse nel mondo. Il 1968 non è stato un anno qualsiasi. Si partecipava alle assemblee sul pratone, cioè l’altro lato di Viale della Primavera, proprio di fronte scuola, quello che molti anni dopo diventerà il quartiere Casilino 23 ora Villa De Santis, dove Nadia ha comprato la sua casa nel 1987, dopo qualche anno che era tornata da Bologna. Si organizzavano le prime manifestazioni, le occupazioni; si ascoltavano, in assemblea, soprattutto le proposte di quelli del quinto anno o degli studenti del Liceo scientifico Francesco d’Assisi che stava proprio di fronte al Botticelli, oggi Ambrosoli. Sarà perché i ragazzi del Liceo erano in maggioranza maschi, mentre la nostra scuola era prevalentemente femminile, sarà perché gli studenti degli ultimi anni erano o ci sembravano affascinanti, sarà perché si viveva in sintonia con una realtà che volevamo cambiare, ma in quel periodo ci sentivamo dentro un mondo in continuo movimento e ci confrontavamo con tutti. Ci si confrontava anche con gli studenti dell’Istituto per Geometri Boaga, che allora occupava una delle palazzine del Botticelli, ed è proprio tra questi che abbiamo conosciuto un paio dei nostri amici più cari, Antonello e Roberto con i quali è nata un’amicizia che è durata anni e che avrebbe potuto trasformarsi in amore. Non è stato così e non per loro volontà, ma allora si sperimentava cosa volesse dire amicizia tra maschi e femmine. Ci si interrogava sulla possibilità che potesse esserci un rapporto del genere e noi dicevamo: sì, certo e non solo lo affermavamo, lo vivevamo, soprattutto. L’ardore politico, insomma, insieme all’avvio della nostra crescita personale risalgono a quegli anni e d’altra parte lo slogan Il personale è politico, il politico è personale più che gridarlo lo praticavamo.
E le lunghissime chiacchierate? Beh, quelle continuavano a riguardare tutto. Si parlava male dei professori, si analizzava la situazione politica nazionale ed internazionale, si parlava di studio, di vestiti, del nostro corpo che continuava a trasformarsi, ma non sempre come avremmo desiderato, di libri letti: un paio “importanti” me li ha prestati Nadia in quegli anni di passaggio tra letteratura per ragazzi e letteratura “da adulti” ed hanno costituito l’inizio del mio amore più maturo per la lettura, un’apertura verso argomenti che ancora non consideravo; ora li ho qui, fra i miei, ed anche se sono edizioni vecchie e “sgarrupate” rappresentano un tesoro inestimabile di ricordi e di confronti. Allora era lei a consigliarmi cosa leggere, molto tempo dopo capitava che mi telefonasse per chiedermi Cosa leggo, cosa mi consigli? e così come lei mi prestava libri che hanno contribuito alla mia crescita, io le consigliavo testi che sicuramente l’avrebbero coinvolta, le sarebbero interessati. Ancora oggi, quando leggo un libro so se glielo consiglierei oppure no. Parlavamo di amori, delle discussioni in famiglia, dei contrasti con i genitori e su questo argomento Nadia si trovava in una posizione diversa dalla mia. La mia era una famiglia di destra (mio padre era stato segretario della sezione del MSI ad Aprilia, dove ho vissuto per undici anni, e ancora militava in quel partito), cattolica praticante, numerosa e caciarona, ma incredibilmente più aperta della sua che era comunista, poco praticante la Chiesa e piccola, più silenziosa. La famiglia Pietrini era composta da solo quattro persone, il padre Alvaro, la madre Luigina e Marco, il fratello. La mamma di Nadia era molto presente in casa e nell’educazione dei figli, d’altra parte non lavorava fuori casa. Nel primo pomeriggio, spesso passavo a casa della mia amica che ancora stava pranzando, quando io, che l’avevo lasciata sotto casa sua quasi un’ora prima, ero arrivata a casa, avevo già mangiato, lavato i piatti, visto qualcosa per scuola e l’avevo raggiunta; notavo lo sforzo che faceva nel mangiare, nel bere la spremuta d’arancia che la mamma preparava e poi rimaneva lì a controllare che finisse tutto. Un po’ troppo (no?) per una ragazza di quattordici, quindici anni. Forse sì era bello ricevere quelle premure, ma poteva risultare anche eccessivamente ossessionante questa mania del cibo. I suoi pasti, allora, erano lenti, lenti, come sono rimasti anche in seguito, ma il gusto per ciò che mangiava, Nadia lo ha conosciuto soltanto dopo essere andata a vivere per conto suo. Tutto quel parlare e parlare non ci bastava comunque, tanto che capitava di scambiarci lettere, bigliettini che ci passavamo a mano, magari scritte o scritti appena ci eravamo lasciate per continuare un colloquio, un confronto che non terminava mai. Negli anni successivi questi pizzini scomparvero, non ce li scrivevamo più, ma quando ci prese una vena poetica ed ognuna di noi cominciò a scrivere pensieri, riflessioni sotto forma di poesia, riempimmo un quadernetto da dedicare e regalare una all’altra. Ancora dopo, nel tempo, esprimevamo nostre riflessioni sul nostro rapporto o su altro sui bigliettini che accompagnavano i regali che ci scambiavamo. Beni preziosi anche quelli.
Un’importante esperienza, anzi fondamentale, vissuta insieme, quando eravamo veramente molto giovani, è stata quella della comunità di base nella parrocchia di Sant’Ireneo. Sempre negli anni 1968/1969 si cominciavano a sentire gli effetti del Concilio Vaticano II, quello che aveva aperto la Chiesa al mondo, che l’aveva rinnovata. Nella nostra parrocchia c’era un prete, Don Luigi, che dopo aver insegnato religione alcuni anni al Francesco d’Assisi (ma non ricordo se era stato docente anche del Botticelli), lavorava in Vaticano, era Monsignore e continuava ad avere un grande interesse per i giovani, tanto che aveva organizzato alcune assemblee che si tenevano nel pomeriggio fuori dalla scuola, ma sempre in ambienti che le Istituzioni religiose del quartiere mettevano a disposizione. Grandi sale teatro di scuole private sono state le sedi di quei primi incontri ai quali abbiamo partecipato in moltissimi perché affascinati dalle tematiche proposte: il marxismo, i rapporti tra figli e genitori, i rapporti tra ragazze e ragazzi, i preti operai, ecc. ecc. Tutto ciò che, insomma, ci coinvolgeva moltissimo in prima persona. Dopo le prime “assemblee” affollatissime, abbiamo iniziato a darci appuntamento nella parrocchia di Sant’Ireneo, a Via delle Palme, che era anche la nostra parrocchia. Io non frequentavo più la Chiesa da due anni, forse un po’ stanca di riti ripetitivi e che sembravano vuoti e privi di senso. Non ricordo con precisione se per Nadia quello fu un riavvicinamento e nemmeno se un vero e proprio stacco c’era mai stato. Dopo i primi affollatissimi incontri assembleari, abbiamo iniziato a vederci nelle sale della parrocchia, nel cortile, continuando a dibattere su tutto, ma soprattutto a conoscerci. C’erano studenti delle superiori, come noi, di tante scuole della zona, ma anche studenti universitari. Poi pian piano si è cominciato ad affrontare anche qualche tema religioso, senza mai perdere di vista il mondo nel quale eravamo immersi, il nostro quartiere e ciò che in esso accadeva, cosa serviva alle persone che ci abitavano. Qualcuno suonava la chitarra e d’altra parte proprio in quegli anni la Messa diventava anche cantata con testi che erano più nuovi, non erano più insomma, le vecchie canzoni di Chiesa. E cantavamo anche per conto nostro, magari quando uscivamo la domenica pomeriggio ed andavamo al centro (appuntamento rigorosamente alla lampada Osram), cantavamo le canzoni di De André e Guccini, nelle salette parrocchiali si imparavano La città vecchia e Dio è morto. Abbiamo fatto ricerche sul campo di ciò che offriva e di ciò che mancava al quartiere, abbiamo girato per strade e sentito gli abitanti, le associazioni, i comitati di quartiere, facevamo raccolte della carta per poi venderla ed il ricavato andava a chi ne aveva bisogno, andavamo a pulire cucine a gas che definire lerce è un vero e proprio eufemismo, che poi si sarebbero sistemate magari per qualche baraccato, dato che in quegli anni ancora se ne contavano tante di baracche dalle nostre parti (Alessandrino, Gordiani, stazione Prenestina). Abbiamo iniziato a scrivere e pubblicare un giornalino di quartiere, con i risultati delle nostre analisi. Nel frattempo questo gruppo di ragazzi si sentiva sempre più unito ed insieme ad un primo nucleo di una comunità di base sono nate le prime risposte da dare al quartiere. Noi eravamo praticamente tutti studenti, non c’erano le scuole a tempo pieno, i figli delle famiglie di emigrati meridionali necessitavano di un aiuto a scuola e così abbiamo iniziato a fare doposcuola ai bambini. Dopo qualche anno abbiamo dato vita ad una vera e propria scuola serale per studenti-lavoratori o meglio lavoratori-studenti. Allora erano tanti coloro che non avevano la licenza media e non essendoci ancora le 150 ore in nessuna scuola del quartiere, ci siamo resi utili preparando queste persone a sostenere da privatisti l’esame di terza media, ognuno di noi insegnava una o due materie a seconda degli studi che stava facendo, avevamo un orario “scolastico”, ma di sera, però non mettevamo i voti. Che voti potevamo mettere a persone giovani e meno giovani che avevano lasciato gli studi magari venti anni prima o anche tre, quattro anni prima, che lavoravano per l’intera giornata (e alcuni facevano lavori veramente pesanti, usuranti) e poi venivano lì a cercare di capire l’area del rettangolo e non ci riuscivano? A chi aveva lasciato la scuola dopo la prima elementare e non riusciva più neanche a leggere? Eppure erano padri di famiglia, imprenditori, operaie!
La vita della comunità ci riempiva, ognuno di noi era indaffarato, impegnato in attività varie, compresa quella di preparare bambini e ragazzi per la cresima; la domenica mattina spesso facevamo vere e proprie lezioni di teologia o parlavamo di Don Milani, dei preti operai, di descolarizzazione della società, di obiezione di coscienza, di Erich Fromm, di anticoncezionali, di film e di talmente tante di quelle cose che è impossibile ricordarle tutte. Ciò ovviamente non ci impediva di vivere i nostri primi travolgenti amori e allora ci confidavamo speranze e delusioni, storie reali e storie che non si realizzavano. Le prime delusioni amorose Nadia le ha vissute lì. Che dolore dichiararsi, come ebbe il coraggio di fare Nadia, (all’epoca le ragazze non lo facevano) e sentire una risposta negativa! Che pianti! Lui, però, era proprio di coccio. Ho ammirato veramente tanto la forza della mia amica in quell’occasione.
Una volta l’anno, a settembre, avevamo un convegno di qualche giorno fuori Roma. Il primo anno Nadia non è venuta perché la madre non glielo aveva permesso, ma negli anni successivi, vincendo una battaglia epica a casa, è sempre riuscita a venire. Anche in quelle occasioni il nostro stare insieme era caratterizzato da un confronto continuo, soprattutto riguardante la fede, ma la possibilità di stare insieme per giorni interi, di condividere, di giocare, scherzare e preparare pasti per 30/40/70 persone ci esaltava. Le notti erano tutte un gran cicaleccio, ricordo una notte in cui mi sono addormentata mentre parlavo, così, a metà parola e Nadia, nel letto a fianco al mio, ha aspettato un pezzo la fine del discorso. Con il passare degli anni qualcosa stava cambiando all’interno della comunità e l’interesse per un impegno concreto nel sociale andava diminuendo, mentre affioravano conflitti più o meno sotterranei, chiusure verso un certo integralismo religioso, priorità diverse, c’era chi tendeva a focalizzarsi sull’attività più propriamente interna alla parrocchia e chi continuava ad aprirsi al sindacato, al quartiere, all’assemblea delle donne, allora appena nata nel quartiere. Così, dopo un lungo penare, abbiamo deciso, insieme, di uscire dalla comunità e di iniziare a vivere un periodo diverso delle nostre vite, abbiamo voltato pagina ed è stata proprio l’Assemblea delle donne del Consultorio di Via delle Resede il luogo che ci ha viste protagoniste delle lotte della fine degli anni Settanta. Erano passati circa dieci anni: adolescenti all’inizio, giovani e curiose donne alla fine! Non si era mai spenta la nostra voglia di essere nel mondo, di respirare e vivere la storia che si dipanava davanti a noi. Dopo alcuni anni di difficoltà ed imbarazzo tra chi era uscito dalla comunità e chi ancora ci viveva, con molte e molti ci siamo incontrati, nelle manifestazioni, nelle marce per la pace, nella sezione PDS/DS/PD, nelle battaglie e nell’impegno per i più fragili, i più poveri, i deboli, per la pace, contro il nucleare, per i diritti delle donne.
L’Assemblea delle donne appunto: i consultori appena nati abbiamo dovuto iniziare a difenderli subito; la legge 194, quella sull’interruzione volontaria di gravidanza, siamo riuscite con le unghie e con i denti a non farla cancellare. Quante riunioni, quanti incontri, quante nuove conoscenze fra quelle mura. Una delle più significative è stata quella con Renata, compagna del P.C.I. di vecchia data, testimone, protagonista, esempio che avremmo incontrato nuovamente, anni dopo nella sezione del P.D.S., ma questo è già un altro pezzo di storia. In quegli anni roventi non ci son state solo riunioni per decidere come utilizzare al meglio questo magnifico strumento che l’istituzione dei consultori ci offriva (l’Assemblea delle Donne, appunto), ma scoprivamo il self help, l’autocoscienza, stare insieme tra giovani donne, le manifestazioni nelle piazze a gridare Donna lo sai la forza che hai? e tutte rispondevano urlando Sì, lo so la forza che ho. La notte ci piace, vogliamo uscire in pace! Non siamo le donne dei caroselli, tutte profumi e niente cervelli. Sembrano solo slogan, ma quanto c’è ancora da gridarlo e quanto anche questa esperienza ha maturato in noi, in Nadia, il desiderio di cambiare il mondo, di stare tra noi, di difendere le persone più deboli, le donne, appunto, di capire fino in fondo chi eravamo e chi volevamo essere. Nadia da allora non ha mai smesso di scavare e scoprire tanto di sé, perfino quando lo scavare faceva male. Dall’Assemblea delle donne è nato un piccolo gruppo formato da 10/12 giovani e belle donne che hanno iniziato ad incontrarsi anche al di fuori del consultorio per parlare, giocare, travestirsi, viaggiare e ridere. Nell’estate del ’78 Nadia è venuta per la prima volta a Pantelleria. Giravamo sempre in tre lei, Isabella ed io ed eravamo talmente assorte dentro le nostre conversazioni che ci è capitato una volta di accorgerci in ritardo di tre bei ragazzi, ai quali avevamo dato un passaggio in macchina, perché impegnate a chiacchierare tra noi. Le chiacchiere, però, non ci hanno impedito di vivere tutte amori travolgenti, tutti con ragazzi più giovani di noi, amori spensierati, ma non semplicemente estivi o almeno non per tutte noi. Nadia si è buttata completamente, l’amore per Giovanni è stato forte ed intenso e vissuto fino in fondo con tutta la serietà e la voglia di vivere che l’ha sempre contraddistinta. Alla fine dell’estate per lui la storia era chiusa, per lei no. Così torniamo a Roma e alla nostra vita cittadina, lasciandoci dietro gli odori di quella terra, il suo mare e la sua gente, che Nadia ha amato da subito, ma anche tanto amaro e dolore per lei. Così ricominciamo con le riunioni, gli impegni ed ogni tanto qualche viaggetto. Sempre lei Isa ed io siamo andate a Firenze ed un paio di anni dopo a Venezia e Trieste. Le riunioni a casa di Giuliana (un’altra Giuliana), ma sarebbe meglio chiamarle incontri, da Gisella, da Paola o Silvana, con Donatella, Paoletta, Flora, Isabella, Giovanna si sono trasformate nel tempo, si sono diradate, sono diventate altro. Qualcuna di noi vive da anni in altri Paesi, ad altre latitudini, ma un piccolo zoccolo duro è ancora rimasto ed il persistere dello stare insieme, del condividere, dell’incontrarsi è diventato difficile da organizzare, è vero, però noi continuiamo, imperterrite. Come nel 2014, ultima vacanzetta fatta tutte insieme, a Radicofani per gustarci le terme: solo per prendere gli ultimi accordi tra mail ed sms avremmo potuto riempire un volume della Treccani. È talmente vero che avevo pure pensato di scriverci un libro, Flora aveva anche già trovato il titolo Vite parallele di donne scombinate! Quanto ci siamo divertite in compenso e quanto continuano a piacerci ironia ed autoironia, perché, se non si ride delle proprie fissazioni, di cosa altro si può ridere con così tanto piacere? Eravamo in sei, ora siamo rimaste in cinque, ma Nadia, alla fine, ci ha regalato un desiderio ancora più forte di continuare a vederci, a raccontarci, a sentirci sempre più unite.
Prima ancora di lasciare la comunità di S. Ireneo e di tuffarci in nuove realtà avevamo terminato le scuole superiori, ci eravamo iscritte all’Università, lei si era iscritta a Psicologia, ma, alla fine, ha solo preparato la sua tesi di laurea senza portarla a conclusione, avendo anche iniziato a fare concorsi vari nella pubblica amministrazione; uno dietro l’altro, diversi insieme, lei ed io, come quando siamo andate a Venezia per un concorso indetto dalle Ferrovie dello Stato. Nadia ne ha vinto uno, appunto, proprio in Ferrovia, a Bologna. Era orgogliosa di lavorare in Ferrovia, proseguiva la strada del padre, ma la vita a Bologna non è stata facile. Il freddo, le alzatacce, i turni di notte, la casa, la spesa, il distacco dal mondo più familiare, i nuovi rapporti. In questo, però, Nadia è sempre riuscita facilmente a creare incontri, a tessere relazioni, a costruire amicizie, ad ascoltare e a farsi valere, a non tirarsi mai indietro. E noi due, il nostro rapporto? Quando ho potuto l’ho raggiunta e stavamo insieme il 2 agosto del 1982 alla manifestazione per ricordare la strage di due anni prima alla stazione: quante lacrime, quanta commozione, insieme alla determinazione, e quanto sudore, ma le nostre mani si intrecciavano e la nostra vita ha continuato ad intrecciarsi, il filo non si è mai spezzato, anche se a distanza era più difficile. Ormai sapevamo, però, che ciò che avevamo costruito nei lunghi anni vissuti insieme, nelle interminabili chiacchierate, nei milioni e miliardi di parole scambiate tra noi erano e sarebbero stati più che sufficienti per poterci permettere momenti di distacco, senza più parole, gonfi di silenzi densi, pieni. Perfino quando le nostre scelte non sono state più in sincronia o non comprese da una delle due fino in fondo, ma sempre rispettate, parole e silenzi sono sempre stati parti essenziali del nostro rapporto. Spesso bastava guardarci, senza dire niente, molto più frequentemente eravamo capaci di continuare a raccontarci e a confrontarci, dopo che tutti erano andati a letto da un pezzo, con l’ultima nostra sigaretta, in macchina. E sempre eravamo assolutamente più che certe che nei momenti più belli ed ancora di più nei momenti più dolorosi e difficili, l’altra ci sarebbe stata.
Gli amori? Tanti sì, anche quelli. Amori romani, panteschi, bolognesi, genovesi, ecc. Alcuni durati poco, corrisposti, altri con una durata più lunga, a volte non corrisposti e quello più significativo, forse, è stato l’amore tra lei e Marco, anche lui ferroviere. Nadia, dopo alcuni anni di vita a Bologna dall’ottobre del 1979 a febbraio del 1983, era riuscita a tornare a Roma vincendo un concorso da capostazione, ha girato tra la stazione di San Pietro, quella Prenestina e poi Ciampino, Ponte Galeria, Maccarese, sempre con il suo berrettino e la paletta, pronta a dare il via al viaggio. Proprio lì, a Maccarese è nata la storia con Marco. Una storia matura, lui separato, con figli quasi adolescenti all’inizio, lei con turni massacranti, ma sempre disposta a dare. Il rapporto è durato 4/5 anni, la convivenza uno o due, non riesco ad essere precisa. Ricordo bene, tuttavia, la gioia e le difficoltà di cui mi diceva, insieme alla determinazione a godere della sua casa che aveva acquistato poco dopo il ritorno da Bologna al Casilino 23, perché quella scelta significava, comunque, indipendenza dalla famiglia d’origine e, insieme, da una vita di coppia che avrebbe potuto scricchiolare, come di fatto è poi accaduto. A quel punto il dolore è stato più forte ed intenso che mai. Non si trattava di un amore giovanile o di breve durata, di un amore a scadenza con un coinvolgimento relativo, bensì di una storia nella quale Nadia aveva riversato affetto, impegno, dedizione, passione, energie. Perfino allora, però la mia amica ha avuto la forza, alla fine, di riversare tutto ciò su altro, di rinascere a nuove esperienze, nuovi interessi e passioni o di rispolverarne altre, in parte sopite, accantonate. L’amore per la montagna, per i viaggi, ad esempio.
Con un concorso interno Nadia ha cambiato ruolo all’interno delle Ferrovie, diventando parte del personale amministrativo, funzionario; ancora per molti anni, però, non sono mancate le alzatacce, i turni, il freddo, per correre a risolvere problemi di treni bloccati, di linee, di accordi per attivare il servizio navetta sostitutivo del viaggio in treno, soppresso per motivi tecnici, di comunicazione con gli utenti. L’impegno per il lavoro non è mai venuto meno, la sua passione, la sua precisione sono durate negli anni integre, tanto che, quando la Ministra Fornero ha posticipato l’età pensionabile, Nadia ha affermato di non avere alcuna fretta di andare in pensione, che aveva ancora voglia di continuare ad alzarsi tutte le mattine, attraversare mezza Roma, arrivare al Salario, o alla stazione Termini (negli ultimi anni) per proseguire ad elargire il suo contributo alla vita collettiva.
Altro immenso interesse personale Nadia l’ha scoperto proprio attraverso i colleghi di lavoro: il canto. È entrata a far parte del coro del dopo lavoro ferroviario, ne è diventata la presidente e ci ha regalato, insieme agli altri componenti del coro, tanti spettacoli, tanti momenti emozionanti, tante esperienze condivise, sia quando qualcuno di noi ha assistito agli spettacoli del coro (sul bombardamento di San Lorenzo, sulla Resistenza, sulla Prima Guerra Mondiale e tanto altro) sia quando ha convinto i suoi “amici del coro” a venire ad esibirsi alla Festa dell’Unità del nostro Municipio, al Centro anziani di Via Delpino o a quello di Via dei Frassini. Nadia è stata presidente anche della nostra associazione culturale Arcoiris e qui ha unito il suo amore per la montagna con quello per la cultura. Si era iscritta al Partito dei Democratici di Sinistra, arrivando anche a candidarsi, nel 2006, come consigliera per il VII Municipio. Riporto integralmente una parte della sua presentazione per quella sfida: “L’impegno politico è maturato come sbocco coerente rispetto un percorso ispirato ai valori del rispetto degli altri, della democrazia, di laicità e di solidarietà. Penso fermamente che le idee possano essere tradotte in atti di governo della cosa pubblica”. Ecco: l’impegno politico, quello con il sindacato. Pure in questo campo le nostre vite si sono intrecciate ed il suo “gettarsi” pienamente in ciò in cui ha creduto e credeva non è mancato. Le sfacchinate per la Festa dell’Unità territoriale e per quella cittadina, le riunioni, le discussioni, la presenza ai seggi elettorali in qualità di rappresentante di lista, le cene di sottoscrizione, i congressi, il passaggio dai DS al PD, le primarie e tante, tante altre attività hanno riempito le sue e le nostre giornate. Proprio ad uno dei congressi della sezione di Via degli Abeti è legato uno dei tanti miei ricordi personali, ma forse uno dei più forti, uno particolarmente significativo. Eravamo lì immerse ed immersi in una battaglia politica ed io non potevo muovermi, stavo per fare un intervento che anche altri aspettavano, quando mi chiama mia figlia Giulia, allora in piena crisi adolescenziale, piangente, disperata. La disperazione prende anche me, ma proprio non potevo andarmene per correre in suo soccorso. Che fare? Guardo Nadia, la chiamo e le chiedo se può andare lei al mio posto, se può parlare con Giulia, se riesce a sostituirmi in un ruolo così delicato, in un momento così fondamentale per la vita di una ragazza. Neanche ho detto tutte queste parole, le ho semplicemente detto “Giulia è a casa e sta male, io non posso proprio andarmene”. Beh, non servirebbe neanche dirlo, ma lei è andata, è corsa a raccogliere le lacrime di Giulia ed io sapevo di aver affidato mia figlia in ottime mani, sapevo di poter contare sulla sensibilità di una donna che è sempre stata in grado di capire e di provare empatia per tutte e tutti, per ognuna e per ognuno, bambine e bambini, giovani e anziani,per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla e di averla come amica.
Nadia non ha avuto figli, ma quelli delle sue amiche sono tutti stati un po’ anche figli suoi. Non ha costruito una sua personale famiglia, ma quelle dei suoi amici e conoscenti sono state la sua grande famiglia: una famiglia immensa alla quale ha dato amore, tempo, disponibilità, forza, energia, dolcezza, bellezza.