newsletter: Leggere fra le righe

“Le otto montagne”, di Paolo Cognetti


numero 13 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk – febbraio 2021


la copertina

Generalmente evito di leggere i libri di grande successo o, per lo meno, li leggo quando la bufera mediatica è sbollita. Così ho fatto anche con il romanzo vagamente autobiografico di Paolo Cognetti, che mi è parso, lo dico subito, sopravvalutato. La prima cinquantina di pagine narra l’amicizia, nata alla fine degli anni ’70, fra un ragazzino milanese e un coetaneo di montagna, coltivata durante i mesi estivi e fatta di scorribande nei pascoli, fra i ruscelli, nelle baite abbandonate. L’impressione che mi ha lasciato è stata quella di trovarmi davanti ad un libro per ragazzi, di quelli che leggevamo negli anni ’60, e che avrebbe potuto ispirare un telefilm di quelli che guardavamo, sempre negli anni ’60, nei nostri pomeriggi davanti alla “TV dei ragazzi”. Sullo sfondo un rapporto difficile padre-figlio sia per il cittadino Pietro, figlio di un chimico, sia per il valligiano Bruno, figlio di un manovale emigrato. L’adolescenza allontana i due ragazzi, che si ritrovano trentenni, quando il narratore, il milanese Pietro, torna nel paesino valdostano per restaurare il rudere in pietra – la barma – che il padre, prematuramente deceduto, gli ha lasciato, a sorpresa, in eredità.

Anche il racconto della ricostruzione del rudere mantiene quel sapore di romanzo d’avventura: è piacevole il “facile” svolgersi degli eventi: Bruno che mette a disposizione con generosità la sua competenza di muratore, bivaccando sul cantiere, Pietro che fa la spola fra il paese e il cantiere, con un asino che porta materiali da costruzione e generi alimentari, la stufa rimediata in un altro rudere abbandonato, la sana stanchezza del lavoro materiale, la condivisione della birra serale.

Passano altri anni e i due amici si ritrovano, l’uno divenuto documentarista giramondo, con predilezione per il Nepal, l’altro inventatosi imprenditore, che ha ripristinato una stalla in montagna e si è dato all’allevamento di vacche in alpeggio e alla produzione di formaggi. Seducenti entrambe le biografie anche se è un fascino un po’ banale: non piacerebbe, almeno per un attimo, a noi camminatori di montagna di immaginarci tornare da un’ascensione in Nepal e appendere, novelli Messner, i nostri panni di preghiera davanti alla baita di roccia e larici che ci siamo costruiti con le nostre mani? E non ci piacerebbe, questo per un attimo un po’ più breve, poeticizzare il duro lavoro dell’allevatore di montagna e vederci mungere la mucca e preparare un formaggio a km. 0, profumato di erbe alpine?

Comunque, se l’idillio prosegue per il cittadino Pietro, che in Nepal trova pure la fidanzata (senza troppa fantasia operatrice di una ong), le cose vanno male per il montanaro Bruno, presto sommerso da una montagna di debiti e costretto al fallimento, mentre la compagna (già fidanzata dell’amico) torna a vivere in città con la bambina. E a questo punto l’epilogo, che mi ha ricordato quello che mi parve gratuito e inspiegabile nel film Into the wild: incapace di accettare il fallimento e negato ad ogni socialità, malgrado l’aiuto che l’amico e la compagna gli offrono, Bruno scompare in alta montagna, nella neve e nella nebbia di un inverno che ha scelto di trascorrere nella barma messagli a disposizione dall’amico.

Insomma, sono rimasta delusa, soprattutto a fronte dei premi ricevuti e delle molte traduzioni in varie lingue.

Tuttavia, non mancano pagine e mezze pagine felici, come quando, a pagina 32, l’autore descrive il diverso attaccamento dei genitori del protagonista alla montagna: per la madre la montagna è fatta di alberi, identificati quasi con persone, mentre il padre “sopporta” il bosco solo quale via obbligata per giungere al severo silenzio dell’alta montagna. Oppure, qua e là, l’evocazione della contrapposizione fra città e campagna, che mi ha fatto pensare a certe pagine di Marcovaldo di Calvino (ma era il 1963!). O, ancora, la descrizione del trasferimento all’alpeggio delle mucche, nel chiassoso dondolare dei campanacci e latrare dei cani (p. 147): non ho potuto non pensare al decimo racconto, ancora una volta, di Marcovaldo . O quando, nella ricostruzione di un rapporto con il padre ormai morto, Pietro ne cerca le tracce nei messaggi scritti sui quaderni conservati nelle cassette metalliche sulle cime (pp. 124-127). Oppure quando un vecchio nepalese con un carico di galline, incontrato dal protagonista lungo la valle dell’Everest, spiega la concezione del mondo, che dà titolo al libro: la voglio riportare per esteso.

“«Ah, – disse lui – ho capito. Stai facendo il giro delle otto montagne». «Le otto montagne?». L’uomo raccolse un bastoncino con cui tracciò un cerchio nella terra. Gli venne perfetto, si vedeva che era abituato a disegnarne. Poi, dentro al cerchio, tracciò un diametro, e poi un secondo perpendicolare al primo, e poi un terzo e un quarto lungo le bisettrici, ottenendo una ruota con otto raggi. Io pensai che, dovendo arrivare a quella figura sarei partito da una croce, ma era tipico di un asiatico partire dal cerchio. «L’hai mai visto un disegno così?» mi chiese. «Sì – risposi – nei mandala». «Giusto, – disse lui – Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi». Nel dirlo tracciò, fuori dalla ruota, una piccola punta per ogni raggio, e poi una piccola onda tra una punta e l’altra. Otto montagne e otto mari. […] puntò il bastoncino al centro e concluse: «E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?»” (pp. 137-138).

Altri frammenti che mi sono piaciuti li riporto testualmente, in questa stessa newsletter, sotto la rubrica “A parole”.

Proprio perché è un libro di cui molto si è parlato e per farsene una personale opinione, consiglierei comunque di leggerlo, soprattutto ai più giovani, per quel carattere di romanzo di formazione che ha soprattutto la prima parte. Mi farà piacere leggere il vostro parere, qui sotto, nella sezione dei commenti. Per trovare la biblioteca più vicina che possiede il volume, edito da Einaudi nel 2016 (pp. 208), potete consultare il Catalogo Unico Nazionale.

Marina M.

2 Comments

  1. Anch’io ho letto il libro parecchio tempo dopo i premi e mi è piaciuto. L’anno scorso, in tempo in tempo prima del lock down sono stata in montagna nella zona dove è ambientato il libro. Durante la lettura ho rivisitato continuamente il paese, le valli di cui parla Cognetti. Il mio giudizio sul libro è condizionato anche dal ricordo dell’ultima vacanza quando non si sapeva di stare bene.

  2. Anch’io ho letto il libro l’estate scorsa e mi è piaciuto. Ha una sua trama e struttura, descrive bene i rapporti e le differenze montagna-città, padri/madri-figli e personalmente penso che il successo sia meritato, anche se naturalmente non credo si possa annoverare tra i capolavori della letteratura italiana (vedi Calvino…citato da Marina)

Leave a Comment