numero 2 – Newsletter della Associazione Arcoiris – aprile 2019
24 agosto 2016, ore 3,30 – 30 ottobre 2016, ore 8,15: tra le altre date del terremoto che ha sconvolto la zona tra Amatrice, Accumoli, Norcia e Arquata del Tronto, sono le date particolari in cui si è consumata la rovina di Capodacqua, frazione di Arquata del Tronto.
Era il paese che era dei miei nonni materni, di mia madre nell’estate dei suoi anni di bambina e ragazza, e dei suoi anni da sfollata, tra il 1943 e il 1945, e mio.
Il paese, nel quale per un periodo breve, tra gli undici e i quattordici anni, ho fatto conoscenza e sperimentazione del mondo contadino, da cui provenivano i miei, e ho imparato, in quel paese impervio incassato in una valle dell’Appennino, a conoscere la montagna e ad amarla.
Ci sono andato, domenica 7 aprile, per la prima volta dopo il terremoto, in compagnia di Rosa, cugina di mia madre, che in quel paese aveva la casa, e che tante volte, in questi due anni e mezzo ci è già tornata, per recuperare le sue cose o per andare al cimitero. Abbiamo passeggiato tra le case abbattute o messe in sicurezza, fermandoci dove era la sua casa, guardando con stupore due bottiglie di vino, ancora intere, che affioravano tra i muri.
Abbiamo sostato a lungo all’Oratorio della Madonna del Sole, oggetto di un progetto di restauro del FAI, al quale abbiamo contribuito come Arcoiris; la chiesa è circondata da impalcature, che l’hanno mantenuta in piedi, ed è diventata, in maniera quanto mai triste e appropriata, una vera ‘cattedrale nel deserto’.
Nel paese, qualche casa in piedi e qualche automobile (due), di qualcuno che, senza permesso, continua a viverci o a tornarci durante il giorno: degli orti, qualche cane. E’ tutto.
Tra le rovine della nuova chiesa parrocchiale, emergono i meccanismi in metallo dell’orologio del campanile.
Intorno, per questi paesi dove la vita era difficile già prima del terremoto, gruppi di casette, dai nomi evocativi di Pescara 2, Capodacqua 2, Borgo 1, con l’aspetto incongruo di villaggi vacanze.
Tanti spazi giochi per bambini, donati con generosità da tanti comuni e associazioni, troppi, forse, per pochi bambini. E anche questo è un segno di quanto sia difficile essere presenti, darsi da fare, essere di aiuto. Le strutture comunali, ricostruite accanto alle casette, sono di difficile utilizzo: è necessario un addetto del comune che venga, apra…
Ci raccontava la gestora dell’agriturismo dove abbiamo dormito, a Grisciano (frazione di Accumoli), all’estremo confine del Lazio sulla Salaria (e qualche chilometro più avanti è già Marche, e Umbria, e Abruzzo), che, ‘prima’, la sera i bar erano sempre pieni. Ora, ci sono ancora i bar, nelle casette prefabbricate, poco lontano dal vecchio paese e dalle nuove casette. Ma nessuno esce più la sera.
A Norcia, che abbiamo visitato il giorno dopo, una negoziante, nel nuovo negozio alloggiato in una casetta, ci raccontava che il marito è morto dopo il terremoto, non sotto le macerie della sua casa, ma sotto altre macerie, che lo soffocavano in profondità.
“Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E’ il mio cuore
il paese più straziato”.
(Giuseppe Ungaretti)
Ricostruire è difficile.
A Trisungo, altra frazione di Arquata del Tronto, a ridosso della Salaria. Le case erano vuote e puntellate, o circondate da fasce di contenimento.
Abbiamo passeggiato lungo la via centrale; un palazzetto ha attirato la nostra attenzione: aveva al primo piano una loggia affrescata, disabitato anche quello. L’atmosfera era surreale.
Poi, a un angolo, un fascio di lacci per legare le viti (fatti con ramoscelli di salice, come si usava prima dell’uso della plastica, mi assicurava Patrizia). Dentro la vigna, un uomo anziano continuava il suo lavoro.
“La vita non è uno scherzo,
prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio,
pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli,
ma perché non crederai alla morte,
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia”.
(Nazim Hikmet)
Giuseppe M.
Per molti anni Capodacqua è stato uno dei traguardi dei miei giri in bici, partendo da casa mia a Borgo; a volte, prendendo la dura salita da Tufo, altre osando la ripida discesa in senso inverso, con i freni che faticavano a tenere. In ambo i sensi, costeggiando il limpido torrente che scende dalla montagna verso il Tronto.
Negli ultimi tempi, per ragioni diciamo anagrafiche, avevo ripiegato sulla più abbordabile strada normale, quella che sale a Forca Canapine. Comunque non mancava una bella bevuta (d’acqua, che pensate).
Prima che il tempo mi “consigliasse” di passare all’auto, ci ha pensato la natura “matrigna” a risparmiarmi la fatica.