newsletter: Viva la curiosita

Sesta puntata – Ritorno a Castel Madama (dopo l’8 settembre del 1943)


numero 15 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk – giugno 2021


In fuga da Frascati e dopo una notte trascorsa presso parenti di mamma a Roma, dove trovammo la gente che si abbracciava e gridava “la pace, la pace”, non ricordo come arrivammo a Castel Madama, il paesello dove ero nato e dove avevo trascorso la prima infanzia.

Castel Madama, Piazza Umberto I

Noi, famiglia di Todini Tito, eravamo degli “sfollati”, come si diceva allora, e il podestà, cugino di mio padre, ci trovò una “rimessa” a via Roma, dove avremmo potuto accasarci. Il portone a quattro ante si chiudeva con un enorme saliscendi; immetteva in uno stanzone, da dove si passava a un’altra stanza di dimensioni più modeste, fuori dalla stanza una “loggetta” da dove si accedeva a un piccolo bagno con tazza. Me le ricordo quelle mattinate di inverno, quando il gelo avvolgeva il mio culetto sulla tazza, intento a fare pipì e popò. I quattro fratelli maschi, io Angelo Enrico e Vittorio, dormivamo nello stanzone, il resto della famiglia nell’altra stanza.

Tutti i nostri parenti abitavano nel paese alto, a via “Fori” come la chiamavano i paesani; ma il vero nome era Mario Corvisieri, un garibaldino morto combattendo contro l’esercito austro-ungarico agli inizi della Grande Guerra. Ma che saputo che sei! No, no, l’apprendo oggi su google, che risponde puntuale alla mia curiosità.

Quelle prime sere salivamo per la cena dai nostri parenti: il mio zio calzolaio e le mie zie sarte (e con un po’ di campagna, importante per quei tempi di scarso mangiare). Ho un dolce ricordo di quelle discese, dopo cena, verso la nostra casa, giù in fondo al paese: io che mi addormentavo, camminando sotto braccio a papà, al rumore ovattato delle scarpe che scivolavano sul selciato.

Io e Angelo che, con gli altri due fratelli dormivamo nello stanzone d’ingresso, cadevamo in un sonno profondo; ci risvegliava di botto il rumore delle scarpe che Vittorio lanciava contro il galletto che tentava il chicchirichì di giornata fra le tre e le quattro e la gallinella, povera innocente, appollaiati tutti e due alla sbarra fermaportone dell’ingresso. Ma, se in questo modo si poteva ammutolire il gallo, non si poteva fermare il gracidare della manovella, sulla quale si accaniva Zozzetto, per mettere in moto il suo camion a carbonella.

Di quei tempi ho tanti ricordi piacevoli, ma anche qualcuno triste, doloroso. Perché Enrico a undici anni era già un po’ discolo e, perciò, disobbediente, benché a scuola gli avessero insegnato a “obbedire”, oltre che a “credere” (al Duce, è naturale) e a “combattere” (per la Patria, impegnata alla conquista dell’Africa Orientale). Cosicché quando a sera mio padre tornava dal lavoro (faceva il commesso alla mensa dell’Aeronautica, non più il fabbricatore di paracadute) e mia madre gli raccontava le malefatte di Enrico, cominciava la rincorsa attorno al tavolone: il letto mio e di Angelo la notte, oltre che desco per i pasti di famiglia. Dopo alcuni giri di tavolo, Enrico veniva agguantato e riempito di botte; e io piangevo lacrime calde … per questa cocente sconfitta.

Castel Madama, Piazza Garibaldi

Una variante di questa scena si ripeteva attorno al giardino rotondo (e perciò chiamato “ju polennò”) di piazza Garibaldi.

Questa nella foto è la piazza co’ ju polennò al centro. Tutto in discesa era quel giardino, ma in salita a risalirlo; e attorno si svolgeva la scena di Enrico che scappava e Vittorio, nostro secondo padre, che lo rincorreva, per acciuffarlo e punirlo. In salita, Enrico guadagnava qualche metro, ma in discesa Vittorio si buttava a precipizio e, prima o poi, lo raggiungeva. Angelo e io, naturalmente, eravamo contro le pretese paterne di Vittorio; ma alla fine era lui che vinceva … E noi giù a piangere.

Gualtiero T.

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