venerdì 10, sabato 11 e domenica 12 marzo 2006 – Week end nelle Cinque Terre
Roma, dieci di Marzo. Opprimeva la Capitale un cielo plumbeo, volgendo al termine il destro imperio. E pioveva. Rari ombrelli intirizziti passavano per le strade, rese lubriche dal benzinesco viavai. I diciassette partecipanti alla “campagna delle Cinque Terre” si stavano trasferendo a piccoli manipoli in terra di Liguria. Alle due della sera il mio manipolo, composto, oltre a me, da Emma, Flavio, Lucilla, Luciano, la fulva Patrizia e Rocco il plebeo (senza figlio e senza fratelli), prendiamo l’elettrica biga alla volta della Spezia marina. Non passavamo ancora per la Vecchia Civita, allorquando il cielo si colorava di un intenso azzurro, che a me suggeriva uno di quei versi immortali che il dolce Francesco avrebbe composto qualche secolo dopo, all’appressarsi, come ora, della Primavera: Zefiro torna; e il bel tempo rimena.
Man mano che dalla terra spezzina arrivavamo a Manarola (cosiddetta, io credo, perché con le sue viuzze e barcuzze ti entra in una mano), Nadia la “onniprovvidente” ci sistemava nelle diverse dimore, da dove, alle otto della sera in punto (anzi qualche punto in meno) siamo convenuti nell’Aristideo Ristoro che, a cena fatta, si potrebbe anche rinominare “Alla festa del Pesce” (basta dire: due primi, in apertura, del tipo “risotto alla marinara” e “penne al …salmone” ; o che ne so io, che non me ne intendo).
All’indomani, sabato undici, un cielo terso accoglie i nostri risvegli in quel tripudio marino; e a me, che mattutino mi arrampico fra le casupole del paese, mi sovvengono i versi essenziali e scabri (le parole in più sono parole perse) del grande Eugenio: Bastano pochi stocchi d’erbaspada / penduli da un ciglione / nel delirio del mare. Veramente non mi sovvengono, ma li leggo nella lapide che dedica una piazzetta birichina al nome del nobel Montale (eppoi c’è qualche malalingua che dice che quelli de Arcoiris penzano solo a magnà).
Fra impennate e scalinate, dal livello del mare saliamo oltre i 700 metri con panorami che ci mozzano il fiato. Guarda lì , a destra, Groppo e Volasca; e Corniglia là sotto; e più in là Vernazza e, sullo sfondo, Monterosso. E a sinistra Riomaggiore e lo scoglio di Portovenere. E voi? Voi non potete dire, come noi: “Io c’ero!”.
Nella seconda cena, consumata a “La Scogliera”, che ve lo dico affà? Tre antipasti di pesce; e pasta al pesce; e, come secondo, portate di pesce. Talché qualcuno esclamò: “Lasciate che i pesci vengano a noi”; ma da buon comunista avrebbe preferito i bambini.
Domenica mattina, chi pe’ ‘na cosa e chi pe’ ‘n’altra, in sei hanno preferito fare i turisti, restando al livello del mare. In dieci seguimmo Nadia, presidente e duce, su, su fino alla Cigoletta (i soliti 700 metri) e poi a Corniglia, per poi riscendere a Vernazza. Qui saluti e baci fra partenti e restanti. Io, dopo quattro ore di escursione, volentieri avrei preso il treno per Manarola, ma la “grande buciarda” mi fa: “Guarda che c’è un’oretta, un’oretta e un quarto per Corniglia e, poi, mezz’oretta per Manarola. Buciarda! Ci son volute quasi tre ore per il ritorno e le mie gambe ancora se ne dolgono. Con ciò sia cosa che, s’io fosse foco, io l’abbrucerei; che è pure mia moglie…
Splendide Cinque Terre! Addio! Ed ecco il primo tunnel, dove il treno lentissimo s’imbuca: sempre Eugenio.
A voi, o Marotta e tutti gli altri assenti, io dico: “Se ci sarà un’altra volta, non perdete l’occasione; carpite diem!“.