Venerdì 25 luglio 2020 – Trekk urbano notturno. “Un miserabile sogno rimosso. Per i luoghi della Roma coloniale”
Comincio subito col dirvi che è stato un trekking urbano diverso dal solito, ma era proprio difficile trovare aneddoti “lievi” per raccontare “il misero sogno rimosso” dell’Impero fascista. Sull’avventura coloniale italiana è sceso un silenzio grave anzi, una vera e propria rimozione… confligge troppo con l’idea degli “italiani brava gente” che tanto ci è cara. Poi c’è anche un’analisi storica attenta che la riduce a un sogno di conquista da operetta, una goffa imitazione degli imperi economici, quelli sì veri, costruiti dalle potenze europee.
Insomma, un impero fatto con i fichi secchi, come furono dette le nozze di Vittorio Emanuele III con Elena di Montenegro e, in effetti, un imperatore che si sposava in una semplice chiesa, che diventerà Chiesa di Stato in quell’occasione e Basilica nel 1920 (non dico San Pietro ma manco ‘na basilica…a Roma!!); un matrimonio celebrato da un semplice monsignore (per quanto del clero palatino e certo i cardinali a noi romani non ci mancano) e con una regina di un regno piccolo considerato ininfluente… insomma anche qui una maldestra imitazione delle sfarzose nozze delle corti europee…
Comunque, noi partiamo dalla Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri per ricordare Vittorio Emanuele III Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia nel giorno del suo matrimonio il 24 ottobre 1986. Ma la realtà ci riprende subito a dimostrazione del filo sotterraneo che lega quel passato a questo presente. Il 24 agosto 2017 c’è stato lo sgombro dalle aiuole in Piazza Indipendenza a Roma dei rifugiati eritrei, già cacciati da un palazzo vicino alla Stazione Termini. La foto che Luciano ci mostra è una sintesi perfetta di quello che vedremo e ascolteremo. Ritrae un poliziotto che accarezza una donna eritrea. Quel gesto e quello sguardo ci parlano di una relazione complicata da ambiguità e violenza coloniale ma è anche il simbolo di una fratellanza mancata, di una questione cominciata verso la fine del XIX secolo e mai veramente terminata.
Ci spostiamo davanti al monumento dedicato ai caduti della battaglia di Dogali. Fino al 1925 era situato davanti alla Stazione Termini, accogliendo così i viaggiatori che arrivavano a Roma. Quell’anno, a seguito dei lavori di ristrutturazione della stazione, fu spostato nei giardini davanti alla Terme di Diocleziano. Anche qui non si può fare a meno di cogliere un cambiamento, una sfumatura sottile… oggi il monumento e situato in un angolo della piazza all’interno di un’aiuola semi abbandonata, la piazza adiacente si chiama dei Cinquecento in onore dei caduti in quella battaglia, ma i romani per chiamarla così si devono concentrare … per loro resta un generico Piazzale della Stazione. Certo la scelta di celebrare una sconfitta in una guerra coloniale, potrebbe essere considerato oggi un colpo da maestro della comunicazione … chissà chi era lo spin doctor del regime! A me resta in mente solo la frase di D’Annunzio “bruti uccisi brutalmente”. A scuola non me l’hanno fatta studiare.
Camminando arriviamo a via De Pretis. E’ con il suo governo che è cominciata l’espansione coloniale in Africa, quella fatta “per portare un impero di civiltà e umanità per tutte le popolazioni dell’Etiopia”. Gliela abbiamo portato con il generale Graziani chiamato “il macellaio di Fezzan”, con il Vicerè che dopo la guerra sarà inserito nella lista dei criminali di guerra dalla Commissione delle Nazioni Unite, con una guerra in cui l’Italia compì quello che ancora oggi è considerato il più grave crimine di guerra dell’Italia, l’eccidio di Debre Libanos dove soldati italiani massacrarono almeno duemila persone inermi fra monaci, preti e pellegrini.
Quando negli anni settanta cominciò la fuga dalle dittature sanguinarie del Corno d’Africa, per i somali e per gli eritrei l’Italia fu considerata la meta naturale. Del nostro paese conoscevano la cultura, era da loro considerato un modello di modernità, un luogo dove poter progettare un futuro, anche perché, sia gli italiani che l’Imperatore di Etiopia, per ragioni di real politik, avevano scelto di dimenticare la guerra, le stragi, gli eccidi, l’uso dei gas. Fino al 1974 le scuole in Somalia erano italiane, ma anche in Eritrea portare i figli alle scuole italiane dava prestigio e assicurava un futuro. Davanti alla statua di Giulio Cesare in via dei Fori Imperiali, ricordiamo il romanzo di Garane Garane “Il latte è buono” che ci racconta come la quotidianità di quei popoli era fatta di Italia. Gashan, il protagonista, sa tutto del nostro paese, ha studiato la nostra lingua a scuola, ha mangiato i dolci italiani del pasticciere sotto casa, conosce la nostra musica e il nostro cinema, sa cose dell’Italia che neppure noi sappiamo. Non è difficile immaginare lo sconcerto e il dolore del sentirsi stranieri e sconosciuti in un paese che si immaginava accogliente e carico di promesse. E’ Giulio Cesare, lui sì Imperatore, a raccogliere il dolore di sentirsi estraneo in un paese considerato come la sua seconda casa. Era invece un paese incupito dagli anni di piombo e dalle avvisaglie di una crisi economica che già generava malessere sociale, dove sta montando la ferocia di un passato colonialista con le idee di razza inferiore e razza superiore, con gli stereotipi dei neri pigri e delle donne da usare a proprio piacimento. Fu proprio in quegli anni che il razzismo colpì ferocemente i primi migranti. Nel 1979 un somalo fu bruciato vivo per scherzo da quattro ragazzi e nel 1985 un ragazzo somalo fu massacrato dai suoi compagni di scuola con 63 coltellate perché nero, figlio di una famiglia benestante e cosmopolita. Eravamo arrivati così ad odiare sia il povero che il ricco e la sola colpa era essere neri.
Intanto ragionando e raccontando siamo arrivati alla Chiesa ortodossa etiopica in via di Monte Polacco. La Chiesa ortodossa Tawabedo (“unitaria”) oltre ad essere la prima chiesa africana è anche una chiesa che non è nata in seguito all’opera di missionari occidentali. Anche qui non posso non notare che è nascosta in un vicolo ed ha una piccola porta d’accesso… in una città come la nostra, dove c’è una chiesa imponente ad ogni passo…
Adesso siamo a San Pietro in vincoli e ci rilassiamo un po’… Panini, dolcetti e chiacchiere un po’ più leggere, qualche progetto per le vacanze, qualche battuta e un po’ di rimpianto per le uscite perdute con il lock down però Patrizia ci rassicura… cercheremo di recuperare tutto il recuperabile!!
Nel nostro percorso ci fermiamo a metà strada per il momento clou del trekking… Massimo Miano che ci legge il discorso con cui Mussolini annuncia – nel 1936 – la nascita dell’impero fascista. Ilarità inevitabile. Intanto Massimo ci ha confessato che questa sarebbe stata sicuramente una delle cose di cui si sarebbe vergognato di più nella sua vita, poi noi tutti abbiamo provveduto – senza metterci d’accordo!! – a controllare che non ci fossero passanti ad ascoltarci, un po’ ci veniva da ridere, magari un po’ amaramente di quella loquela pomposa, e un pò ci veniva da sorridere per solidarietà a Massimo…
Camminando per i Fori Imperiali e Via di San Gregorio arriviamo a Piazza di Porta Capena e ci fermiamo lì dove una volta c’era l’obelisco di Axum. L’obelisco, anche qui imitando le gesta dell’imperatore Augusto, fu prelevato come bottino di guerra, venne trasportato nel 1937 a Roma e innalzato nella piazza in occasione dei 15 anni della marcia su Roma e del primo anniversario dell’Impero (era lì vicino il Ministero delle Colonie, oggi sede della Fao) e restituito all’Etiopia all’inizio degli anni 2000.
Ci ritroviamo così in questa piccola e bruciata aiuola in mezzo al traffico su cui spuntano due colonne (avanzate da chissà quale magazzino…) e un cippo con una piccola targhetta nera che ti devi inchinare per leggere. Ricorda le vittime dell’11 settembre. Vittime tutte due volte. La prima di colonialismo e terrorismo e la seconda di approssimazione e di una smemoratezza offensive.
Ma come? E la guerra in Etiopia? E il colonialismo italiano? Non c’è più niente. Tutto cancellato e dimenticato.
Davanti a quell’obelisco, nelle Olimpiadi del 1960, era passato il maratoneta etiope Bikila diretto verso il Colosseo. Una corsa per la prima volta in diretta e in eurovisione. Una congiunzione straordinaria di antichità e modernità, di presente e passato, di storia dello sport – quello sarà il primo oro olimpico per l’Africa – e di memoria della nostra brutta storia coloniale… in quell’attimo c’era tutto quello che bisognava sapere e ricordare. E adesso?
Rossella G.