numero 10 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk – agosto 2020
Non so sciogliere il dilemma se scrivo di me e degli altri perché sono curioso o se scrivo per essere letto, perché sono vanitoso. Ma forse il dilemma non esiste: sono curioso; e sono vanitoso. Certo è che mi incuriosisce indagare sul mio passato attraverso i pochi ricordi che mi rimangono; e non so se qualcun altro è interessato a leggermi. Ma io, i miei ricordi, li scrivo.
Sono nato nel gennaio del 1935; ero il sesto figlio, dopo di me solo Angelo (e sette!); trascorrevo diverso tempo della giornata nella bottega che papà sarto gestiva con il fratello, zio Giuseppe; un locale abbastanza spazioso, tanto che l’ingresso era occupato dal cognato calzolaio, mio zio Nazareno, col suo deschetto. Al lato destro (entrando) c’era una panchina dove venivano a sedersi il veterinario, il parroco o il vigile urbano (l’unico); e chiacchieravano…
Piccolo, tre o quattro anni, avevo voglia di parlare, di chiedere (come faccio ancora adesso che sono diventato vecchio), chiedevo e imploravo risposte che non venivano, e allora esclamavo “Di’ sci, papà!”, come mi racconta zio Nazareno. Con quello zio io me la intendevo; qualche volta mi portava dal gelataio, il gelato da dieci lire per sé, il mio da cinque. Diceva però che per lui era troppo e io pensavo che si poteva fare uno scambio, anzi una volta glielo dissi proprio: e lui, per tutta risposta, “che furbetto che sei!”.
Da piccolo – è vero – avevo la nomea di essere un furbetto di sette cotte e mia madre lo confermava, raccontando che una volta al forno c’era una cesta di ciambelle ancora calde ai piedi di una signora e io guardandola dritta negli occhi le avevo detto: “lo so che queste ciambelle non sono per te, sennò me ne davi una”; e naturalmente la ciambellina mi fu data.
A quei tempi il pane non si comprava, si ammassava a casa e si portava al forno. Alle quattro del mattino passava la fornaia a dire “sora maé, fatte lo pa’ ”; e, qualche minuto prima delle cinque, mia madre con passo incerto, la tavola con le pagnotte in testa; si recava al forno. Ogni donna sulle pagnotte incideva il suo marchio di famiglia: ‘na forchetta, ‘n corteju, do’ forchette, do’ cortej, ‘na forchetta e ‘n corteju, eccetera. Ma quando, tirate fuori con la pala, uscivano dal forno le pagnotte di mia madre, tutte sbilenche, scriscimignate dicevano le astanti, la fornaia dichiarava, ammiccando alle altre donne: “Maestraolga!”, tacendo il marchio di famiglia.
Di quegli anni mi ricordo che avevo l’abitudine di raggiungere mia madre nel lettone, non so se per abbracciarla o altro. Una volta – forse mi toccavo il pisellino – mi disse: “Non fare così, che Gesù piange”. Quella situazione, quella frase mi è tornata in mente tante volte negli anni successivi e quel Gesù che piangeva a causa mia, che stavo a letto con mia madre, mi appariva sempre un po’ inquietante, ma nebuloso e difficilmente qualificabile: che c’entrava lui e perché piangeva? Oggi mi chiedo – e sono curioso ancora adesso, dopo tanto tempo – di sapere se mia madre, imbarazzata da quanto avveniva, aveva trovato le parole giuste, almeno per lei, che sciogliessero il suo imbarazzo.
Gualtiero